In quello che è quasi certamente il miglior film lungometraggio realizzato dai Taviani, in cinquant'anni e passa di filmografia, si ha anche la baldanza di iniziarlo come fosse una storia speranzosa se non scherzosa, con il nostro idealista protagonista Giulio Manieri, che tenta in modo ridicolo e inadeguato, velleitario, di fomentare una rivoluzione rurale tra i contadini per tramite dell'"internazionale socialista" assieme ai suoi pochi compagni di lotta, rapidamente trasformandosi nella tragica storia di un bravo ragazzo prima condannato a morte e poi commutato in carcere a vita apposta proprio davanti al plotone di esecuzione dalla grazia del Re. E che cerca di preservare i propri ideali in condizioni disumane parlando da solo per tenere a bada la follia di una quotidianità talmente sempre uguale a sè stessa, da non esistere più. Sebbene la sceneggiatura sia un adattamento molto libero nientemeno che di un racconto di Tolstoj, la lunga parte di dieci anni in isolamento, messo da solo per evitare di influenzare alcuno,nelle carceri regie dei beatificati Savoia, entra di diritto come nel pur lontanissimo ma quasi dello stesso anno "Papillon" di Franklin J. Schaffner da Henrì Charrière, tra le pagine dei più grandi film carcerari di sempre, tanto da sembrare qualcosa che avrebbe scritto più Kafka se avesse avuto maggiore empatia per i suoi personaggi. Il film mi ricorda una caricatura del XIX secolo di Honoré Daumier: un bambino respira sulla finestra di un negozio, viene sorpreso da una guardia, processato, trascorre tutta la vita in prigione, viene rilasciato da anziano, si avvicina alla stessa finestra e vi respira con aria di sfida, arriva un'altra guardia, ma l'uomo è già morto. Le scene più belle si trovano alla fine del film, dove lo splendido e brullo paesaggio delle paludi veneziane funge da una cornice adeguata per un finale quasi insopportabilmente toccante, a cui da un tenore di grandezza uno splendido Giulio Brogi praticamente in solitario assolo per quasi tutto il film, ma che rimane inusitatamente anche uno dei titoli ancora oggi meno diffusi dei fratelli Taviani.
Cimentatisi con l'alto letterario delle loro trasposizioni e adattamenti dal citato «Il Divino e umano», e non è vero che il film come da qualche parte si legge sia noioso, certo lento e senza azione, quale difetto imputato spesso a molti film dei Taviani.
Considerata la frequenza dei forzati monologhi del protagonista Brogi, sempre sognando anche all'isolamento un nuovo ordine sociale con una manciata di seguaci proiezione della sua solitudine o della incipiente pazzia dettata dalla situazione, una sezione di circa quaranta minuti che descrive la sua permanenza in prigione per questi dieci anni in una cella d'isolamento. "San Michele aveva un Gallo" a questo punto occorre sottolinearlo poggia principalmente sulle spalle dell'attore Giulio Brogi, superlativo nell'offrire un ritratto coerente di Manieri, idealista forse impazzito, che deve organizzare simulazioni di incontri politici nella sua cella e concedersi pasti gourmet immaginari descritti nei minimi particolari e ingredienti, vini, mentre mangia il cibo del carcere, una zuppa inguardabile ripresa nelle ciotole in primo piano, un uomo cresciuto in un ambiente ricco che ha voltato le spalle alla "bella vita", diventando un venditore di autoconvinzioni, lottando con e per i contadini della sua regione, in linea con le numerose lotte internazionali per la giustizia e le riforme che caratterizzarono la seconda metà del XIX secolo. I Taviani al tempo sapevano ben gestire le loro storie e tenere incollati allo schermo, soprattutto nella già citata lunga parte di reclusione in carcere, attraverso suoni e metafore visive, invenzioni mentali per non impazzire; addirittura ironiche - Giulio conduce un immaginario processo su se stesso e sulle sue motivazioni mentre è inella cella - fotografia eccellente di Mario Masini. La "messa in scena" dei Taviani è come sempre parsimoniosa, accuratamente parca di abbellimenti visivi, ma non potendo fare a meno di sfoderare una grazia tale che traspare chiaramente dai morbidi movimenti di macchina, o per il modo in cui ci trasmettono il senso di improvvisa e fugace libertà quando Manieri lascia la sua cella dove era del tutto isolato dal contatto umano(Daniele Dublino che abitava nel mio stesso palazzo in via Scarpellini ai Parioli, è il vero co-protagonista nel ruolo del carceriere), e inizia il lungo viaggio in barca con i carabinieri e i nuovi compagni di prigionia, rivoluzionari di una nuova generazione rispetto alla sua tra cui anche una ragazza, la sorella di Sabina Cuffini, verso la nuova prigione che non arriva mai come una Fortezza nella palude lacustre veneziana. La macchina da presa, installata su una barca, si allontana improvvisamente dall'azione e compie un lungo e meraviglioso viaggio nello spazio aperto, tutto cielo e mare. Durante quest'ultimo atto anche molto di indagine e introspezione psicologica del film, Manieri apprende con sgomento dai giovani rivoluzionari come il mondo sia cambiato e le sue azioni siano state dimenticate, al punto da considerare la sua generazione colpevole del frustrato ritardo di dieci anni nell'emergere del movimento operaio, in una aperta incomunicabilità generazionale oltre che nello scambio dialettico con una generazione più giovane di prigionieri politici, che gli mostra di quanto nel tempo intercorso dalla sua incarcerazione, come oggi e nella ciclicità delle generazioni tutte, i tempi siano cambiati. Tipo oggi con gli ideali dimenticati e i diritti umani violati, quando i "patriarchi politici" sono tutti morti, e "leader" alquanto ottusi e discutibili prendono il potere, e diventa un film nel suo simbolico esistenzialismo, estremamente attuale.


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