Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film
La trama in breve:
Martha ha conosciuto suo marito a Roma. Lui, Helmut, è premuroso, affascinante e protettivo. Dal momento in cui vanno a vivere insieme, però, le cose cambiano. Helmut da premuroso diventa ossessivo, da protettivo si trasforma in maniacale. Prima stacca il telefono, poi impedisce alla moglie di uscire di casa. Lei, che intanto ha conosciuto il giovane Kaiser, comincia a nutrire foschi pensieri.
Nelle tante fasi della carriera del grande regista nato a Monaco c’è stata una parte, molto ampia, influenzata dal noir e Martha, che esce nel ’74 solo in televisione per problemi di diritti, ne è uno dei momenti più alti.
Partendo da “For the Rest of Her Life” di Cornell Woolrich, il nostro dirige un film ipnotico, gotico e brutale, che si chiude sempre di più, sempre di più fino al tragico finale.
La storia inizia a Roma, una Roma di capelloni (che vediamo sulla scalinata di Piazza di Spagna) ed inizia con un desiderio, quello di una donna, un desiderio sempre sopito, sempre negato, da una famiglia che non le concede libertà.
Il rapporto con il padre, che muore subito, e con la madre è un rapporto squilibrato, quasi allucinato; la donna è vergine e non ha mai voluto avere dei rapporti con gli uomini; il suo fisico glaciale, la sua bellezza androgina mostrano la sua totale impossibilità di aprirsi a questo aspetto della vita.
La casa dov’è cresciuta è nera, un po’ lugubre e il rapporto con la madre è dilaniato, è tutto dettato da un’isteria. Come (quasi) sempre in Fassbinder i rapporti famigliari sono disastrosi, logori, marci si direbbe; sono basati su ripicche, castighi, sulla volontà di decidere per e sull’altro, così fa la madre. L’analisi dei rapporti di potere sarà una delle cifre del cinema del nostro amato.
Quando entra in gioco il futuro marito della protagonista (un Karlheinz Böhm inquietante come in “L’occhio che uccide”), oltre alla scena romana che è quasi magica, fuori dal tempo, il film diventa un noir oscuro, glaciale, gotico.
La protagonista diventa sempre più sola, crede di aver trovato l’amore, e l’uomo che ama la priva poco a poco di tutto, la ricatta
emotivamente; è violento in senso fisico e psicologico, e la donna cede poco a poco, anche se cerca di resistere, ma può nulla.
Ed è qui che Fassbinder mette in atto uno dei giochi di potere più forti e radicali del suo cinema; la protagonista non può più scegliere neanche la musica da ascoltare, è sotto il giogo di un uomo dittatoriale, che vuole imporre una morale, dei principi, i suoi, e il suo modo di vedere. L’uomo è sadico, brutale, e rinchiude la donna in casa.
La protagonista (Margit Carstensen come sempre magnifica) tenta di reagire, ma non riesce neanche a parlare di quello che succede, di quello che l’uomo le fa, perché è suo marito e i borghesi non parlano di queste cose, i panni si lavano in famiglia ma neanche lì; e allora resta sola, l’incubo si fa sempre più nero, e quando tenta di scardinarlo, nel finale, subisce la beffa più grande.
I rimandi sono al noir; del resto Woolrich è uno dei maestri anni ’40 americano, ma come sappiamo
Fassbinder ha guardato anche a Chabrol e alla Vardà. Lo stile del maestro è perfetto, chiaro, all’inizio le inquadrature sono più aperte, più vive poi man mano tutto si (ri-)chiude sulla protagonista, l’oscurità diventa la contrapposizione alla sua bianchezza quasi estrema, un fantasma sembra aggirarsi nella casa.
Le prove degli attori sono perno del film, come lo è la fotografia di Michael Ballhaus e il film è un noir perfetto, senza cedimenti. Il transfert che la protagonista fa dal padre al marito è molto interessante, ma è la parte gotica finale ad essere il momento di eccellenza del film, quando il marito mistifica tutto e fa sprofondare la donna in un abisso.
Fassbinder riesce ad inserire in questa rilettura noir molti suoi temi del periodo e ci consegna un film sublime.
Voto 8,5
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