Vita, morte, miracoli di Taylor Swift. Vita: la ragazza con chitarra della Pennsylvania, con i suoi diari in musica country pop - autofiction favoleggiante e trasognata di una cowgirl sedicenne (al debutto) ferita dai suoi principi azzurri -, diviene principessa ribalda dello stardom globale, passando dai colori pastello (Annie Leibovitz la ritrae come una disneyana Raperonzolo) alla spregiudicatezza dance & elettro pop. Ora, con Reputation (Big Machine Records) la ritroviamo demiurgica strega su un trono di vipere, a dettare la riscrittura anche della propria demonizzazione.
I co-protagonisti (maschili o femminili, positivi o negativi) sono, come sempre, innominati: a parlare e far nomi (c’entra Tom Hiddleston? Ce l’ha con Kanye West?) sono gli altri. Morte: preconizzata sui social, dove simula un attacco hacker facendo in realtà tabula rasa del passato per la rinascita (rettile: niente ceneri, nuova pelle), è celebrata nell’ipertestuale singolo glam Look What You Made Me Do. «La vecchia Taylor è morta», e lascia il posto a una regina del mondo irrevocabilmente autoconsapevole. Miracoli: la vogliono cattiva? E lei si disegna così; poco importa della verità, perché i suoi dischi-mondo iniziano e finiscono con lei: non avrà altra dea all’infuori di sé, donna bionica macina-record e sforna-tormentoni, role model tra beneficenza e cause-manifesto (impossibili) vinte (un unico, beffardo dollaro come risarcimento da un dj molestatore). Lo sapevamo dal 2014, in fondo, che «perso lui, aveva trovato se stessa, e quello era tutto». Vita, morte, miracoli. Rivoluzioni?
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