Era rimasto lì, in una piega della musica italiana, dall’uscita di quel Bestiario musicale che nel 2017 lo aveva rivelato come un cantore degli animali del bosco, a immaginare storie come fossero fiabe dei fratelli Grimm, ma libere da una percezione fatalista dell’esistenza. Lucio Corsi, da quell’esordio, non è cambiato: ha alzato lo sguardo oltre la selva e portato i suoi versi altrove, tenendo fede a una levità stralunata, immune alle mode, che celebra la semplicità senza svilirla. Dato che mala tempora currunt, era un attimo che un attestato di peculiarità come il suo essere “fuori dal tempo” si rivelasse una condanna: quella di artista amato solo da una nicchia.

Il successo di Sanremo 2025 ha sovvertito il pronostico: Corsi, su quel palco, microfono sottobraccio e chitarra alla mano, è infine entrato nel nostro tempo, come un musicista in grado di conquistare il pubblico senza inseguirne le inclinazioni, come un elfo che buca lo schermo, strano incontro tra indole glam e la Melevisione. Volevo essere un duro è diventata un inno all’accettazione di sé, nonché l’anticipazione di un disco omonimo, uscito il 21 marzo per Sugar Music, che è il migliore della sua carriera (Bestiario permettendo). Dentro c’è la qualità di sempre, con il plus di canzoni mirate a sostenere il nuovo status popolare: dal ribaltamento poetico del tema edificante in Sigarette alla splendida Tu sei il mattino, emanazione pura del pop anni 70. Lucio Corsi, come Jannik Sinner, come Andrea Kimi Antonelli (promessa della Formula 1), piace perché è anche una versione odierna della massima di Dalla sulla straordinarietà della normalità. Qualcosa che va oltre l’essere percepito dalle masse come “rassicurante” e che racconta qualcosa della nostra attuale disposizione d’animo. Di un bisogno d’equilibrio, in tempi che corrono velocissimi.
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