1 stagioni - 8 episodi vedi scheda serie
“The class wars are definitely upon us.”
Antonio Campos (“Afterschool”, “Simon Killer”, “Christine”, “The Devil All the Time”), il regista di metà degli 8 episodi (i primi due e gli ultimi due, nonché co-produttore esecutivo di tutta la serie assieme a, tra glialtri, Jodie Foster, Conan O’Brien e la stessa co-protagonista Claire Danes) di “The Beast in Me” (gli altri sono la Tyne Rafeli di “Selling Kabul”, il 3° e il 4°, e la Lila Neugebauer di “Causeway”, il 5° e il 6°), la limited serie (il personaggio di potrebbe tornare con altre “avventure”?) creata – produzione 20th (ex Century Fox), ovvero Disney, e distribuzione Netflix – da Gabe Rotter (proveniente dalla produzione delle ultime due stagioni di “The X Files”, e qui al suo esordio in grande) e sviluppata da Howard Gordon (“The X-Files”, “24”, “Homeland”), sembra essersi specializzato (e adagiato) nella messa in scena di prodotti anche molto buoni, ma che non riescono (o addirittura non vogliono) sganciarsi (per levarsi al di sopra) di questa bontà medio-medioalta, e in ciò “The Beast in Me”, che per buona parte si regge sul perpetuo (e magistrale) due-ll/tt-o in campo-controcampo tra la già citata Claire Danes (Romeo + Juliet, The Rainmaker, Homeland, the Essex Serpent, Fleishman Is in Truble, Full Circle), col suo consueto, adorabile, plastico overacting, e Matthew Rhys (Brothers & Sisters, The Americans, Perry Mason), granitico, metallico e tagliente il giusto, si può senz’altro accomunare, né più né meno, che ad altre due serie precedentemente co-dirette dal regista figlio d’arte newyorkese di origini brasiliane, ovvero alla prima e alla seconda stagione di “The Sinner” (Bill Pullman due-ll/tt-a con Jessica Biel & Carrie Coon) e, soprattutto, alla miniserie “The Staircase” (Toni Collette due-ll/tt-a con Colin Firth).



Insomma: gente altolocata che ammazza altra gente altolocata e non, ovvero: sostanzialmente non gliene frega un cazzo a nessuno, e per rendere il tutto (ed è un tutto che dura sei ore e mezza) interessante agli occhi e alle orecchie degli spettatori devi essere (va beh, dai, esageriamo) Alfred Hitchcock o, spettatore di sé stesso, l’assassino, e Antonio Campos & C. non sono né l’uno né l’altro.
Se fosse stato levato ogni dubbio sulla vera natura del colpevole – per intenderci: alla “Columbo” o alla “Poker Face” – forse sarebbe stato meglio perché ci sarebbe stato tempo e modo, levando un inutile, ingombrante, superfluo e fastidioso peso sovrastrutturale, cioè il classico sottogenere del whodunit, d’indagare (nemmeno troppo paradossalmente) meglio le intenzioni e le psicologie dei personaggi e i rapporti di causa-effetto che, provocati e/o affrontati, li collegano.
Il difetto principale di “The Beast In Me” è che tende a non reggere la complessità che mette in scena, e in questo è comparabile invece a “Disclaimer”: si consideri la circostanza in cui Nina, dando la colpa a Nile di ciò, informa Shelley del fatto che, per una questione di conflitto d’interessi, la mostra non potrà più avere luogo, e Shelley capisce che in realtà questo è il volere di Aggie, scevro da ogni possibile subdola macchinazione di Nile, e quindi quello che poteva sembrare un complotto ordito contro Aggie da Nile con la complicità fattiva di Nina e quella inconsapevole di Shelley si rivela essere… beh, molto – e ho semplificato assai la faccenda perché, spoiler a parte, in campo vi sono sottotesti, desideri incrociati e tripli giochi: e tutto ciò puoi permettertelo se sei (va beh, dai, esageriamo) Matthew Weiner, e oltre a "Mad Men" mi sto riferendo a "The Romanoffs" e a "Heather, the Totality" – rumore per nulla!



Però comparandola ad un prodotto, per l’appunto, accomunabile (sulla carta e nelle intenzioni) quale può ad esempio essere la coeva “Black Rabbit”, beh, non c’è storia: con la serie interpretata da Jude Law e Jason Bateman non sono riuscito a resistere (e non certo per colpa loro) per più di un quarto d’ora, mentre “The Beast In Me”, beh, è un rullo compressore attoriale (che segue la traccia di una discreta falsariga sceneggiativa).
Completano il sontuoso cast Jonathan Banks (Breaking Bad, Better Call Saul, El Camino), Brittany Snow (Pitch Perfect, X, The Hunting Wives), Natalie Morales (Parks and Recreation, Santa Clarita Diet), David Lyons, Leila George, Deirdre O’Connell, Hettienne Park, Bill Irwin, Kate Burton, Aleyse Shannon, Amir Arison, Will Brill e Tim Guinee, a cui viene affidata forse la battuta migliore:
- “Se me lo stai chiedendo, penso di avere qualcosa che tuo marito e mio fratello non avranno, mai.”
- “Che cos’è?”
- “Abbastanza.”
Fotografia di Lyle Vincent (“A Girl Walks Home Alone at Night”, “The Bad Batch”, “Thoroughbreds”, “Landscape with Invisible Hand” e la stessa “The Staircase”) e musiche di Sean Callery, con nel juke-box, tra le altre, la “Let ‘Em In” di Paul McCartney & Wings e, in salvataggio degli ultimi frame francamente troppo facili & sciocchi, l’appropriata “Death of a Clown” dei Kinks.
“The class wars are definitely upon us.”
* * * ½
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