Fare i conti con il passato. Guardare al domani, dall'oggi, e pensarlo diverso da ieri. Gli USA sono un paese giovane, se paragonato – ad esempio – alla cosiddetta vecchia Europa, e forse non hanno avuto il tempo oggettivo per far maturare a dovere il loro cinismo. Sono giovani, e si propongono ancora come un modello, anzi come IL modello della società occidentale (basti pensare al loro ruolo nella tormentata dialettica oriente/occidente). Pensarsi come “modello” implica necessariamente fiducia in sé stessi, nei propri mezzi; fiducia nel futuro, certo, ma anche – o soprattutto – nel proprio passato. Eppure, volendola dire tutta, benché “recenti” gli Stati Uniti hanno già collezionato un'ampia e vasta scelta di scheletri nell'armadio; ce n'è per tutti i gusti: dal massacro dei nativi americani (nonché deportazione in riserve a dir poco umilianti), allo sterminio dei bisonti; dall'oppressione nei confronti degli appartenenti alle culture afroamericana e ispanica, al maccartismo degli anni cinquanta; dal Vietnam, alle operazioni “sporche” (volendo usare un eufemismo) in Centro e Sud America; dalla questione messicana, alle finte armi di distruzione di massa in Iraq. Solo per fare alcuni esempi.
In God We Trust. Lo sostengono gli statunitensi, nel loro motto nazionale. Verrebbe da chiedersi se Dio – quantunque esista – possa ancora davvero credere in loro (o, per meglio dire, nei loro governi), nonostante i grandi traguardi che hanno ottenuto fino ad oggi. È da questi contrasti, mescolati – all'interno del variegato crogiolo di culture che sono – ad (ed animati da) abbondanti dosi di pragmatico dinamismo, che mi piace credere tragga origine, almeno in parte, il loro particolare “senso del tragico”. Lo spirito, per intenderci, che permea tutte quelle pellicole americane attraversate da personaggi vertiginosamente contraddittori, votati alla sconfitta nel corso di una dolorosa lotta con la vita.
In questa occasione voglio riferirmi a tre film in particolare: Mean Streets (1973) di Scorsese, Carlito's Way (1993) di De Palma, e Bad Lieutenant (1992) di Ferrara.
In principio – çà va sans dire – c'è sempre la dannazione: simboleggiata dal contesto sociale, o da un ingombrante passato di errori, o da una – per così dire – “naturale” propensione al vizio, alla perversione e all'abbrutimento. Tale presupposto tradisce una evidente ottica religiosa (specificamente cattolica), tipica delle culture dalle quali questi film nascono e, infine, muoiono: quella italo-americana (in primis) e quella ispanica. E dopo la dannazione, ovviamente, segue a ruota la redenzione; o, meglio, il suo miraggio, sempre a portata di mano, ma irraggiungibile, affinché il dolore possa trasfigurarsi in pietà, quindi in liberazione... ma su questo tornerò più avanti. Si parla di religione, ed infatti essa appare attraverso simbolismi più o meno espliciti in tutte le opere in esame, costantemente mischiata, però, con la cruda e dura realtà della strada; la “vita vera” – che è sempre un livellante impasto di carne, sangue, appetito e soddisfazione – vissuta nelle arterie pulsanti della metropoli. È lo stesso Scorsese a chiarire quest'immagine: << Se la chiesa è sinonimo di idealismo, la strada è il realismo nel senso più completo della parola. La strada ti accetta per quello che sei; la strada ha il potere di uniformare, sia per il disperato che per il milionario vi è sempre la stessa parte di territorio... >>
All'incrocio fra idealismo e realtà, bestemmia ed utopia, si collocano i protagonisti di queste tre storie: Charlie, Carlito Brigante, ed il Cattivo Tenente.
Charlie, recitato in Mean Streets da uno splendido Harvey Keitel, è il nipote di un boss italiano stanziato a Brooklyn, e vive la sua esistenza in una condizione di irrisolvibile lacerazione: da una parte il rispetto dovuto alle leggi e alle consuetudini della sua comunità (chiusa, materna, ma anche opprimente, coartante e spietata) e dall'altra le istanze di un'etica cattolica – profondamente “sentita” dal personaggio – avvertite spesso in netta opposizione con quelle. E poi c'è Johnny Boy (interpretato da un giovanissimo De Niro impegnato nella sua prima impresa “scorsesiana”), l'amico di sempre, quello che non mette mai la testa a posto e finirà – più prima che poi – per farsi ammazzare. Tentare di salvare Johnny Boy (da sé stesso) diventa una sorta di “mis(osses)sione”, per Charlie, accostabile – almeno in parte – alla sua attrazione per il fuoco, e la sua duplice carica di dannazione e purificazione. E Charlie si scotterà parecchio, provando ad aiutare l'amico. Scorsese racconta questa storia (parzialmente e visionariamente auto(o pseudo)biografica, come spesso accade con i suoi lavori) per mezzo di una narrazione spezzata e nervosa, a volte improvvisata, con passaggi (quasi) documentaristici – la festa di San Gennaro e, più in generale, lo sguardo su quella Little Italy che ormai non esiste più –; una narrazione sporca, densa di spontaneità iperrealistica (sia visiva che testuale, con i torrenziali overlapping di De Niro), fatta di telecamera a mano e fotografia polverosa, il tutto sostenuto da un uso incalzante e perfetto della colonna sonora – cosa che diventerà uno dei marchi di fabbrica del cinema di Scorsese –, spesso autentica protagonista delle scene (determinante nel far respirare l'aria di quell'epoca) con le immagini relegate a semplice commento visivo, come ha fatto giustamente notare Mario Sesti. Questi elementi, considerati non separatamente, ma nella loro unitaria complessità, sono determinanti nel creare una singolarissima mistione di Cinema (e, quindi, Rappresentazione) e Realtà. Scorsese, infatti, a partire proprio da questo film (prodotto dal manager di Bob Dylan e distribuito da quel geniaccio “indipendente” di Roger Corman), inizia ad elaborare e codificare la propria cifra autoriale, che (come ancora una volta è Mario Sesti ad evidenziare) è contraddistinta da forti elementi stilizzanti e dinamici, i quali, tuttavia, non diventano mai meramente decorativi. Al riguardo, basti pensare anche alla sua ultima fatica, Hugo Cabret, nella quale l'utilizzo delle più sofisticate tecnologie stereoscopiche è al servizio di un omaggio, autentico e partecipato, al grande precursore Georges Méliès. Questo suo stile si esplicherà alla perfezione (senza i manierismi che a volte derivano dall'eccessiva codificazione) in alcuni capolavori successivi, come Taxi Driver, Raging Bull e Goodfellas.
Con il film di Brian de Plama, tratto dai libri-verità Carlito's Way e Afterhours scritti dal giudice della Corte Suprema Edwin Torres, il linguaggio cinematografico cambia, ma il senso profondo resta pressoché immutato. Carlito Brigante, recitato da uno strepitoso Al Pacino (doppiato, nella versione italiana, da un altrettanto strepitoso Giancarlo Giannini, premiato nel '94 con un nastro d'argento!), è un trafficante di droga portoricano che, uscito di galera grazie all'aiuto del suo avvocato (uno Sean Penn bravissimo e irriconoscibile), decide di cambiare vita, di svoltare, e di mettere da parte il gruzzolo necessario ad andare alle Bahamas per rilevare un'attività di auto-noleggio. Un brigante, quindi, che ad un tratto si scopre a sognare una piccola-vita-normale. Cerca di rigare dritto, limitandosi a gestire un nightclub emblematicamente chiamato “El Paraiso”, e nel frattempo ricostruisce la sua storia d'amore con la ballerina Gail (Penelope Ann Miller). Ma ancora una volta i migliori propositi, i sogni e le utopie, devono scontrarsi (e infrangersi) con la dura realtà. E saranno la strada (con il giovane ed arrogante gangster Benny Blanco, del Bronx, interpretato da John Leguizamo) ed il passato (i presunti debiti “morali” contratti con il finto-amico-avvocato) a trascinare Carlito nel baratro di un inevitabile e tragico finale (ambientato ancora una volta in una stazione, come ne Gli Intoccabili), che ci viene sfrontatamente (e magistralmente) mostrato in apertura, come prologo ad un lungo flash-back che copre tutta la narrazione successiva. De Palma, svincolato dai suoi frequenti riferimenti/omaggi Hitchcockiani, si dimostra stilisticamente perfetto e coinvolgente (tecnica e feeling si completano a vicenda), riuscendo ad esprimere la propria personalità autoriale limitando – questa volta – i virtuosismi e gli ubriacanti movimenti di camera a dove realmente necessario, per mettersi a servizio della storia e (soprattutto) degli attori, realizzando così un autentico e incontestabile capolavoro noir (non credete a chi, come il Morandini, individua nel film improbabili – in questo caso, almeno – nostalgie della “malavita che fu”) sull'ineluttabilità del Destino e l'immane difficoltà che è costretto a fronteggiare chi cerca di vivere il futuro scrollandosi di dosso il peso del proprio passato e dei propri errori.
Con il terzo film (giudicato da Scorsese << … uno dei più grandi film sulla redenzione mai fatti. >>)ci troviamo ancora a New York; una New York (forse) in parte diversa, ma ugualmente violenta e disperata. Abel Ferrara è “alternativo” nel senso più profondo e meno commerciale del termine, disperato e violento come le storie che ci racconta. Anche in quest'opera la strada è – ad un tempo – immagine e teatro di una vita drammaticamente realistica, aspra, moralmente disillusa, dove i sogni sono pochi e quasi sempre impastati con il sangue.
I was born in the Bronx but rised in the street […] They call me up when the shit goes down […] 'cause I'm the bad lieutenant.
Sono alcuni versi del testo della canzone scritta da Abel Ferrara all'indomani di una tremenda notizia che sconvolse New York nell'82: una suora stuprata all'interno di una chiesa. È da questo fatto che tra origine Bad Lieutenant, la storia di un personaggio tanto devastato quanto devastante, preda di ogni possibile vizio e bassezza un uomo possa arrivare ad immaginare; un poliziotto senza dubbio peggiore di tanti criminali incalliti, la cui terribile (abissale) disperazione esistenziale ce lo fa tuttavia sentire “vicino”, suscitando uno strano (e disturbante) sentimento di comprensione/partecipazione, accostabile (pur nella sostanziale diversità dei casi in esame) alla “vicinanza” di Alex in Arancia Meccanica. Al riguardo è particolarmente significativa l'allucinante e visionaria scena del monologo, all'interno della chiesa in cui è avvenuto lo stupro, durante il quale il Cattivo Tenente, prima di chiedere perdono, accusa Dio della sua assenza, del suo eterno silenzio di fronte alle umane miserie. Ed è doveroso sottolineare quanto Harvey Keitel sia assolutamente perfetto nel dare corpo al protagonista di questa pellicola, tratteggiandone sapientemente sia gli elementi più bestiali (senza offesa per le bestie) quanto le – in apparenza – insospettabili inquietudini. L'unico gesto di bontà/carità del Tenente verrà ripagato nel peggiore dei modi da un fato grottescamente spietato, come a sottolineare (anche qui) l'apparente impossibilità di sfuggire al proprio destino e al passato sul quale questo è stato costruito. Abel Ferrara è un genio pornografico, esasperato nella conduzione degli eventi, votato ad un'estetica kitch nella quale il sublime si abbraccia all'autentica volgarità, dotato di uno stile in cui l'offesa (al comune “sentire”) si trasfigura in poesia, giocando costantemente sul filo del rasoio tra Alta Ispirazione e pessimo cinema. Non sono molti i grandi autori collocabili all'incrocio di questi percorsi: Abel Ferrara (insieme a Pasolini e pochi altri) è uno di loro.
Tre storie. Tre film. Tre volti della Grande Mela. Tre destini segnati. Ed il Noir – nelle sue più variegate/inaspettate manifest(modific)azioni – che (com'è stato detto anche da altri) si rivela vero grande erede della Tragedia Antica, con i suoi (anti)eroi votati alla sconfitta, non solo inevitabile, bensì assolutamente necessaria per la catarsi finale, vale a dire quel misterioso “fenomeno estetico” (individuato per la prima volta da Aristotele) per mezzo del quale l'Arte, attraverso la rappresentazione del terrore e della pietà, è in grado di condurre lo spettatore alla purificazione dei sentimenti, in vista di una liberazione emotiva che è anche specchio della nostra stessa (fragile) umanità.
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