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Hugo Cabret

Regia di Martin Scorsese vedi scheda film

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La recensione su Hugo Cabret

di lorenzodg
10 stelle

Hugo Cabret” (Hugo, 2011) è il ventiduesimo lungometraggio del regista newyorkese.

Per la prima volta Martin Scorsese fa uso della stilizzazione cartoonistica con la tecnica del tridimensionale e riprese digitali sature e ricolme di profumo e sapore di celluloide.

    Un ammirevole omaggio alla cinematografia delle origini quando il baracconismo pervadeva il set e il pubblico restava estasiato ma anche sfidato dalla nuova arte (o di quella che molti ne facevano già vita breve).

    Una pellicola vistosa e leggera, sontuosa e sagace, virtuosa e distensiva, di pastelli e intimista, intensa e fugace. Tutto sembra impercettibile e vuoto come il ‘gusto di aggiustare le cose’ che servono per colmare il tempo che di sessanta in sessanta si dimena e si agita nelle vite di ieri (sogni in bianco e nero) e in quelle di oggi (realismo colorato e addormentato). Lo Scorsese di sempre che ridisegna il fascino impenetrabile di un sogno di un bambino e di tutti quanti noi nella Parigi degli anni trenta dentro il fitto mondo della sua stazione ferroviaria. Tra miriadi di persone, di piedi in corsa, di donne ben vestite, di negozi luccicanti, di ragazzi in cerca di viaggi, ecco apparire il volto con occhi azzurri di Hugo Cabret che si è fermato nel tempo di passaggio in un orologio (addentro) per aggiustare le misure di quello che è il suo vivere. In una famiglia affallota di sensazioni Scorsese fa fatica a ritrovare il suo personaggio e si districa tra piedi e mani, in velocità saettante, per controllare la sua cinepresa alla cerca del bambino sogno e del tempo con lancette.

    Forse la disposizione dei vari volti appare troppo rigenerante e accalorata, ma il modo di fare cinema del regista colpisce sempre e sa prendere le corde giuste dello spettatore. Il suo amore sconsiderato per la ripresa è talmente alta che subordina la stessa al fascino artigianale di uno dei tanti che rivede spezzoni e filmati di un’epoca snaturata e sfinita da tanto ardore per il nuovo. Scorsese non si lascia solo abbindolare dal gusto di raccontare quello che ne fuoriesce dallo schermo ma completamente trasportare dalla vigoria fantastica dell’uomo magico e dalla vita del sognatore dentro la macchina da presa.

    Una pellicola dove il sonoro e la musica non abbandonano (quasi) mai le immagini e dove le corse e gli sguardi di Hugo entrano diritte nelle scene di vecchi film a scombinare ogni nostro ricordo e giammai ciascuno ridesta la voglia di tenerlo per sempre chiuso. Una ‘chiave a forma di cuore’ (semplice ed efficace) ridà la forza di aprire un segreto, di essere nell’avventura e di conoscere la famiglia: un orfano le tenta tutte per parlare con suo padre da cui ha carpito l’amore per il tempo e i meccanismo del mondo. Un tempo e il tempo che passa non possono non rattristire Hugo ma il suo sogno rivelatore gli fa conoscere il tempo che ‘è lieto fine’ del cinema e quello che l’altro non ricorda si ridesta in lui. Ecco come si incrociano e si (s)incontrano le storie di Hugo Cabret (Asa Butterfield) e Georges Méliès (Ben Kingsley): due tempi diversi che si adagiano nel cuscino del sogno cinematografico. La vita di due bambini (nonostante la diversa età) che s’alzano dal mondo comune e reale per vivere nel sogno. Un cinema, quello di Scorsese, pieno di speranza nascosta, di riluttanza del triste (come tale), di grande interiorità: quello che non sembra dentro il suo ‘escursus’ filmico dà la sensazione di scoperta del retrò-noir e del colore-vitale. Una scenografia (anche ridondante –volutamente-) piena di clamore dove l’ingranaggio dei gesti e dei fatti agognati ingigantiscono l’immaginario del regista e di-lavano una certa cupezza interiore che si spalma nel cammino del regista americano.

     Ciò che preme a noi sapere è chiaro fin dall’inizio ma lo sguardo di Hugo non perde vitalità e non diventa mai fiacco in tutto il film. E quello che il cinema risedimenta nel cuore di un bambino (dentro tutti noi) fa per un attimo allontanare il reale familiare e il clamore di un incidente. Tanto il treno arriva sempre per Méliès, per Scorsese, per Hugo e un incidente fa sopravvivere il sogno anche perché un braccio che non t’aspetti fa continuare la storia dell’orologiaio e del film (e forse di un liete fine). Che bello lasciarsi andare senza condizionamenti e carpire in superficie la voglia di affogare nel sogno dell’incastro e delle ruote della ripresa cinematografica. Scorre il tempo alla stazione di Parigi che si confonde tutto: l’ingranaggio dell’orologio della torre con le strade illuminate della città. La Torre Eiffel, già simbolo del sogno parigino, sorveglia e ridesta le gioie delle cose che sa aggiustare un bambino. La città ammantata di luci notturne dà la corsa alla nuova arte. I fratelli Lumière e Georges Méliès: si ritrovano nemici per nulla. Ma Georges ha ancora voglia di ricordare il suo passato (non tutto distrutto) per merito del sogno di un bambino cocciuto e ardimentoso con l’aiuto sincero dell’amica Isabelle che tenacemente segue ogni voglia e ogni trucco del bambino con lo sguardo (non sempre) triste.

    Da menzionare il cast in ogni suo personaggio, dal bravissimo Asa Butterfield (nella parte di Hugo), a Ben Kingsley (nelle vesti di Miélès) che si mette alla pari col bambino con una recitazione di grande effetto (e che rimane nello spettatore), a Jude Law (papà di Hugo) che pur avendo una parte minima riesce a dare spessore al suo personaggio e Sacha Baron Cohen (ispettore Gustav) che si lascia trasportare dalla sua verve e dal gusto dell’interpretazione stessa.

    Da menzionare l’ottima colonna sonora (di Howard Shore) e la bella fotografia di Robert Richardson (che aveva già lavorato con Scorsese nell’ultimo “Shutter Island”).

   La regia di Scorsese sembra appartata e poco incisiva, ma semplicemente accarezza le immagini (è questo fa capire la sua grandezza).

    Il 3D è invogliante e cattura i nostri sogni con incanto e con sentito fascino.

     Voto: 10.

 

 

 

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