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Il lungo addio

Regia di Robert Altman vedi scheda film

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La recensione su Il lungo addio

di Letiv88
8 stelle

Un noir luminoso e disilluso, dove Altman e Gould trovano un Marlowe fragile ma autentico. Un film imperfetto, duro e sincero: l’amarezza è ciò che resta, ed è ciò che vale.

Il lungo addio (1973) è uno di quei film che sembrano camminarti accanto, piano, senza far rumore, e poi all’improvviso ti accorgi che ti hanno lasciato un segno profondo. Robert Altman prende Raymond Chandler, lo attraversa con lo spirito disilluso degli anni ’70 e ci consegna un Marlowe diverso da tutti gli altri: più fragile, più umano, più smarrito. Non è un tradimento del noir, è una sua mutazione. Un detective che appartiene a un’epoca morta, costretto a muoversi in un mondo che non riconosce più. E proprio per questo diventa il Marlowe più malinconico mai mostrato al cinema.

Philip Marlowe (Elliott Gould) viene trascinato in una storia che all’inizio sembra quasi distratta: un amico, Terry Lennox (Jim Bouton), gli chiede un passaggio in piena notte, una moglie trovata morta il giorno dopo, una fuga improvvisa, un sospetto che cresce senza dire nulla. Marlowe cerca di capire, ma ogni porta che apre gli restituisce più nebbia che risposte. In mezzo ci sono Eileen Wade (Nina Van Pallandt), una donna elegante che nasconde crepe profonde, e Roger Wade (Sterling Hayden), uno scrittore alcolizzato che vive come un animale ferito. Il percorso di Marlowe è un labirinto di menzogne, ricatti e tradimenti, una spirale che lo costringe a scegliere se restare quel bravo ragazzo ostinatamente leale o diventare qualcos’altro.

Altman gira come se stesse spiando il mondo da dietro un vetro appannato. I continui zoom, i movimenti morbidi, la macchina da presa che vaga e sbircia trasformano Los Angeles in una città sonnambula, viva ma distorta. La fotografia abbandona il chiaroscuro classico del noir: qui il sole è dappertutto, e proprio per questo fa più male. La sua scelta di ambientare quasi tutto alla luce del giorno trasforma la California in un incubo luminoso, come se il male non avesse più bisogno del buio per nascondersi.

L’idea alla base della regia è anche quella di rompere l’immagine tradizionale del detective: niente eroe duro, niente battute affilate, niente sicurezza. Marlowe procede spaesato in un mondo che gli scivola via, e la messa in scena – con le voci sovrapposte, gli ambienti che vivono indipendenti dalla trama, la macchina da presa sempre in movimento – è pensata per farlo sentire fuori posto.

Il film è tratto dal romanzo The Long Goodbye (1953) di Raymond Chandler, ma Leigh Brackett rielabora tutto con mano decisa. Brackett aveva già firmato Il grande sonno (1946) con Humphrey Bogart, e proprio questo ponte ideale rende affascinante il suo ritorno su Marlowe ventisette anni dopo, in un’America completamente diversa. Prende la struttura di Chandler e la fa invecchiare insieme al mondo che la circonda: meno dialoghi affilati, meno deduzioni, più disperazione sottotraccia.

Il noir classico viveva di ritmo e intuizioni; qui tutto scivola, si allunga, sembra svagato pur preparando un colpo netto. Il tema musicale di John Williams, sempre lo stesso ma trasformato ogni volta in un genere diverso, diventa un’idea narrativa travestita da melodia: un mondo che cambia forma di continuo contro un Marlowe che non cambia mai. E il finale, improvviso e definitivo, è la naturale conseguenza di tutto ciò che la sceneggiatura gli ha messo addosso.

Elliott Gould costruisce un Marlowe come non se n’erano mai visti. Non duro, non elegante, non brillante: umano, lento, stropicciato, quasi ingenuo. La sua ironia sonnambula, più mormorata che esibita, diventa l’ultima difesa di un uomo che vede crollare ogni certezza. Le sue sigarette interminabili, accese una dopo l’altra, diventano quasi un ritmo personale: un modo per tenere distanza dal mondo e per non perdere mai il filo, anche quando tutto gli scivola intorno. Altman lo scelse proprio perché lontanissimo da Bogart e Powell, convinto che la sua estraneità fosse la chiave per raccontare un Marlowe inadatto al mondo in cui vive. Una scelta coraggiosa che dà al film la sua identità.

Sterling Hayden è una forza della natura: il suo Roger Wade sembra un gigante in rovina, pieno di dolore e furia. Nina Van Pallandt veste Eileen Wade con un’eleganza fragile, fatta più di silenzi che di confessioni. Jim Bouton dà a Terry Lennox un sorriso tirato che non lascia mai capire cosa stia nascondendo. Tutti oscillano tra verità e menzogna, mentre Marlowe resta l’unico punto fermo — e per questo il più vulnerabile.

Il percorso cinematografico di Marlowe è lungo e pieno di trasformazioni, e proprio questo rende evidente quanto la versione di Elliott Gould sia stata un punto di rottura. Philip Marlowe debutta davvero sullo schermo con Dick Powell in L’ombra del passato (1944), primo adattamento ufficiale con il personaggio così come lo aveva immaginato ChandlerHumphrey Bogart gli darà però il volto più iconico nel 1946 con Il grande sonno, fissando nell’immaginario il detective duro, brillante e scaltro. Negli anni successivi arrivano variazioni più canoniche come George Montgomery ne La moneta insanguinata (1947) e l’esperimento in soggettiva di Robert Montgomery in Una donna nel lago (1947), fino alla doppietta più crepuscolare di Robert Mitchum con Marlowe, il poliziotto privato (1975) e Marlowe indaga (1978), che cercano di riportare il personaggio alle radici noir con un tono più stanco e disilluso.

È proprio in questo contesto che il Marlowe di Gould assume tutta la sua forza: non replica l’icona, la mette in crisi. Non è duro, non è brillante, non è nemmeno del tutto sicuro di dove stia andando. È un uomo che sembra appartenere a un’altra epoca, buttato nel caos degli anni ’70. Per alcuni un tradimento, per altri – e per Altman – l’unico modo onesto di raccontarlo in quel momento storico.

Tra le altre sorprese del film spunta anche un giovanissimo Arnold Schwarzenegger, non accreditato, nel ruolo di uno degli uomini di Marty Augustine: una presenza muta ma già imponente. In un altro momento appare lo stesso Altman nel cameo dell’autista dell’ambulanza, una comparsata rapida e volutamente invisibile, perfettamente in linea con il suo stile.

Il lungo addio è un noir che sceglie di spostarsi fuori dalle sue stesse regole, lasciando le ombre per un sole che brucia più della notte. Altman prende la struttura di Chandler e la lascia respirare in un’America disillusa, dove la verità non arriva come rivelazione ma come resa dei conti emotiva. Marlowe non è più il detective che domina la scena: è un uomo che osserva, incassa e prova a restare integro mentre tutto attorno perde forma. La forza del film sta proprio in questo movimento silenzioso, in una regia che sembra lasciar andare ogni cosa e invece accompagna il protagonista verso un gesto finale che cambia il senso di tutto. È un’opera che cresce col tempo, più amara che spettacolare, più umana che eroica, capace di lasciare addosso una malinconia difficile da scrollare.

 

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