Regia di Kiyoshi Kurosawa vedi scheda film
Nel cinema di Kiyoshi Kurosawa, il male non esplode: si diffonde. Cure è la parabola di questa diffusione invisibile, la cronaca ipnotica di un contagio morale che attraversa il corpo sociale e si incarna nei gesti meccanici di uomini e donne qualunque, improvvisamente divenuti assassini. L’indizio più tangibile di tale metamorfosi è la X — marchio inciso, simbolo e ferita — che torna puntualmente sui corpi delle vittime, come un segno di appartenenza a un ordine oscuro.
Ma la X, più che un emblema, è una negazione. Nella sua essenzialità grafica, essa cancella: taglia, annulla, azzera. È il segno che sovrascrive la coscienza e la sostituisce con un comando esterno, quello sussurrato da Mamiya, figura di ipnotizzatore e profeta, incarnazione del nulla che seduce. Ogni omicidio in Cure nasce infatti dal vuoto, dall’assenza di ragione: non è spinto da odio, né da passione, ma da un impulso senza volto, un desiderio cieco di cancellazione.
Nel linguaggio visivo del film, la X assume così una doppia valenza: simbolo del moderno e del primordiale, del razionale e del demoniaco. Da un lato evoca la fredda impersonalità della scienza — il gesto clinico dell’esperimento mentale, l’indagine della psiche come meccanismo —, dall’altro richiama la dimensione arcaica del rito, il marchio magico del sacrificio. Mamiya, con il suo linguaggio rotto e ipnotico, sembra evocare un sapere dimenticato, una formula ancestrale che riemerge dal profondo dell’inconscio collettivo. Cure è dunque il punto d’incontro tra l’incubo tecnologico e il demone rituale, tra l’ipnosi come scienza e l’incantamento come maledizione.
E tuttavia, la X non resta confinata ai corpi delle vittime. Essa attraversa lentamente anche il detective Takabe, ne scava la coscienza, ne erode la razionalità. Takabe è un uomo scisso: indaga per comprendere, ma più si avvicina al mistero, più lo assorbe. Nel suo sguardo, nel suo gesto che sfiora la follia, si consuma la vera rivelazione del film: la X non è un segno esterno, ma un contagio interno. È il simbolo del vuoto che abita ogni essere umano, la croce invisibile che ciascuno porta in sé, in attesa di essere risvegliata.
Questa croce, però, non si manifesta solo nella trama o nei corpi: abita la forma stessa del film. Kurosawa costruisce spesso le inquadrature attorno a linee incrociate — ombre che si intersecano, travi, tubi, ponti, incroci stradali — creando composizioni che sembrano “tagliare” l’immagine. Ogni incrocio diventa una trappola visiva: lo spazio si presenta come infettato da un virus geometrico, una faglia invisibile che corrompe l’ordine. Nei suoi interni simmetrici, spesso spezzati da una diagonale — una tenda, un fascio di luce, un corpo spostato —, la X si insinua come principio di disgregazione. È la linea di frattura che divide la razionalità (la simmetria) dall’irrazionale (la deviazione). Il male entra nelle immagini di Kurosawa attraverso l’angolo, mai dal centro.
Nel corso del film, questa geometria infetta anche i corpi: braccia che si incrociano, mani che si sovrappongono, gesti che attraversano l’asse verticale come segni di autocancellazione. Il corpo diventa così il supporto su cui il male scrive la propria figura, la tela su cui l’invisibile traccia la sua croce.
L’uso del fuori campo e dei campi lunghi completa il dispositivo ipnotico: ogni inquadratura contiene qualcosa “oltre”, un elemento non mostrato ma percepibile, come se lo sguardo dello spettatore fosse tagliato da una X invisibile. Le linee della visione si incrociano in un punto che non si vede mai. È in questo vuoto che il film esercita il suo potere d’ipnosi: lo spettatore, guardando, diventa parte della stessa croce.
In Cure la X è una forma mentale, una struttura che si imprime nello spazio, nel corpo e nello sguardo. Ogni immagine è una X che si apre e si chiude, un incontro e un conflitto, una cancellazione e una rinascita. Kurosawa trasforma il linguaggio visivo in un dispositivo di contagio: un cinema che non rappresenta il male, ma lo propaga — fino a raggiungere chi guarda.
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