Regia di Dario Argento vedi scheda film
Non ha l’impatto del debutto, ma resta un giallo intelligente, teso e ben costruito. Argento fa un passo indietro, ma dimostra già la sua capacità di manipolare lo spettatore.

Secondo capitolo della “trilogia degli animali”, Il gatto a nove code (1971) segna una parentesi particolare nella carriera di Dario Argento. Dopo il folgorante esordio con L’uccello dalle piume di cristallo (1970), qui Argento sceglie la via del giallo classico, più investigativo e razionale, con meno sangue e meno virtuosismi visivi rispetto al debutto. Pur meno esplosivo del primo film della trilogia, nel tempo ha saputo conquistarsi una solida rivalutazione.
Franco Arnò (Karl Malden), un ex giornalista cieco, e la sua nipotina Lori (Cinzia De Carolis) assistono involontariamente a una conversazione sospetta che li porterà, insieme al cronista Carlo Giordani (James Franciscus), a indagare su una serie di omicidi legati a un istituto di ricerche genetiche. Nel tentativo di ricostruire i moventi emergono segreti familiari, false piste e la possibilità di uno scandalo scientifico, fino a un finale amaro che svela la natura del colpevole. Al centro, la figura di Anna Terzi (Catherine Spaak), che si muove tra verità e inganni in un intrigo sempre più oscuro.

Argento rinuncia qui all’eccesso stilistico del debutto, privilegiando uno stile più sobrio e investigativo. I movimenti di macchina risultano funzionali alla storia, con carrellate e virtuosismi visivi presenti in misura ridotta rispetto a L’uccello dalle piume di cristallo. Colpisce però la scelta di adottare più frequentemente la soggettiva dell’assassino rispetto al debutto: la macchina da presa diventa il suo sguardo, costringendo lo spettatore a entrare nella mente del killer e a condividere, anche controvoglia, la sua prospettiva. È un’idea disturbante e originale, che accentua il contrasto con la cecità del personaggio di Arnò e anticipa la volontà di Argento di usare lo sguardo come strumento narrativo e di tensione.
La sceneggiatura è firmata da Dario Argento insieme a Luigi Collo e Dardano Sacchetti, basata su un’idea sviluppata con Luigi Cozzi. La storia punta su indizi e deviazioni, con la genetica usata come chiave narrativa, scelta che oggi può sembrare datata ma che all’epoca rifletteva curiosità scientifiche e timori contemporanei. Argento e Sacchetti lavorarono insieme alla trama e si divisero la scrittura, ma dato che le prime 40 pagine furono interamente scritte da Argento, quest’ultimo volle essere accreditato solo per la sceneggiatura, causando un taglio di stipendio per Sacchetti e una disputa pubblica con Dario e suo padre Salvatore, produttore del film. In alcuni punti, la sceneggiatura si concentra troppo sugli aspetti logici o scientifici, rallentando leggermente il ritmo del giallo, ma nel complesso il meccanismo regge bene.


La coppia Malden–Franciscus funziona con naturalezza e credibilità: Karl Malden dà al suo Arnò una dignità silenziosa, rendendo palpabile la fragilità di un uomo costretto a muoversi nel mondo senza la vista, ma allo stesso tempo mostrando determinazione e capacità investigativa. James Franciscus, nel ruolo del cronista Carlo Giordani, bilancia la lentezza e la riflessività di Arnò con un ritmo più energico e dinamico: il suo personaggio spinge l’indagine avanti, conduce interviste, cerca prove e guida lo spettatore attraverso la logica del giallo, senza risultare invadente.
Catherine Spaak conferisce spessore al ruolo di Anna Terzi: la sua ambiguità emotiva e il timbro melodrammatico aggiungono tensione e rendono imprevedibile la sua collocazione tra innocente e sospetta, sottraendo la figura a uno stereotipo femminile piatto. La giovane Lori (Cinzia De Carolis) svolge invece un ruolo narrativo fondamentale: la sua innocenza e curiosità introducono momenti di leggerezza e umanità che contrastano con la tensione e il rischio costante dell’indagine, rendendo il dramma più credibile e calibrato. La presenza di attori americani, oltre a rispondere a esigenze di coproduzione internazionale, conferisce al film un respiro più ampio e facilita la percezione di un’indagine che attraversa luoghi e contesti diversi, rendendo l’ambientazione più concreta e meno provinciale rispetto a un giallo completamente italiano.

Girato tra Torino e Roma, il film ottenne un buon successo commerciale, consolidando la posizione di Argento come autore di richiamo anche all’estero. La colonna sonora è di Ennio Morricone, alla sua seconda collaborazione con Argento dopo L’uccello dalle piume di cristallo: un lavoro fatto di tensioni sottili e atmosfere sospese, capace di amplificare l’inquietudine più che il colpo di scena. La scelta di legare l’intrigo alla sindrome cromosomica XYY riflette l’interesse, oggi discutibile, per le teorie che associavano la genetica alla criminalità. È uno dei rari casi in cui Argento sembra interessato più al dettaglio scientifico che alla pura suggestione.
Il titolo Il gatto a nove code nasce come un’immagine evocativa più che come un riferimento diretto alla trama. Da un lato richiama il “cat-o’-nine-tails”, il frustino con nove strisce di cuoio usato come strumento di punizione, dall’altro per lo stesso Argento era il modo di rappresentare le tante piste investigative che si intrecciano nel film: nove possibili indizi, nove “code” da inseguire. Una scelta volutamente suggestiva, che contribuisce a creare un senso di minaccia e di inganno costante.


Il gatto a nove code non è il film più iconico di Argento, né il più sanguinoso. È piuttosto un esercizio di precisione, un giallo ragionato che si muove più con il cervello che con le viscere. Rispetto all’esordio appare come un passo indietro in termini di impatto visivo, ma rivela un regista capace di variare registro e di affrontare la materia con disciplina. Un titolo meno immediato, ma essenziale per capire il percorso di Argento verso il cinema che lo renderà immortale.
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