Regia di Ross McElwee vedi scheda film
Il capolavoro Sherman’s March di Ross McElwee del 1986 chiede a gran voce un remake, a detta di registi e produttori innamorati o forse ossessionati per decenni del comico documentario on the road dell’allora single e trentacinquenne regista statunitense. Ma remake in che forma? Un film, una sit-com, un musical? Intanto però sono passati 40 anni, e con loro tanti altri film (Time Indefinite, In Paraguay e Photographic Memory, per citarne tre), e la vita di McElwee, quella su cui lui struttura tutto il suo cinema, si è trasformata: si è sposato e ha divorziato, ha avuto un figlio e una figlia, ha viaggiato e ha avuto altre relazioni. Dunque si tratta di constatare a quale stadio sia la vita di questo Woody Allen cine-diaristico nel 2025, ed è purtroppo uno stadio drammatico: 8 anni fa è morto il figlio Adrian per overdose, e per McElwee il cinema è ancora di più un fatto di memoria, di come la memoria rimescola le carte e le ridistribuisce, di “bobine tutte messe alla rinfusa”. Remake è un film esilarante e straziante in egual misura, frutto di un lavoro di fino su archivi e filmini familiari che nel suo cinema diventano sempre paradossale e impossibile slapstick (o melodramma), quasi che il montaggio giusto riuscisse ad attuare un processo trasformativo sulle immagini. Il cine-diario di McElwee è sempre una riflessione in prima persona, il dialogo di un Io con ciò che è in campo, una messa in abisso di ciò che questo Io nota nella realtà (e della simpatia nevrotica della gente di cui si circonda); ma Remake è anche un esercizio di strutturale messa in discussione dell’unicità di quello sguardo, di quell’Io. Infatti il figlio Adrian ha riempito ore e ore di memoria digitale dei suoi filmati e dei suoi progetti musicali, e McElwee li riscopre come uno scrigno di tesori, per provare a calarsi in un altro sguardo e per capire la misura delle sue responsabilità. Il suo montaggio è dunque in dialogo con altre immagini, ne viene contaminato, come un nuovo e devastante esercizio di memoria. Una meditazione che non può non viaggiare anche sul tema dell’onnipresenza della camera, quella protesi grigia e impersonale che l’amica di una vita, Charleen, disprezza e declassa a filtro che non lo fa esistere davvero. Così il cinema di McElwee raggiunge le sue consuete vette di brillantezza, con schiettezza brutale anche quando la sua Stanza del figlio (o la sua Camera verde) si piega a un inevitabile requiem. Al netto di nevrosi, ironie, cambi di regime e momenti di grande tenerezza, è un esercizio-specchio à la McElwee che riconferma lo smalto di un maestro mai citato abbastanza.
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