Regia di Kaouther Ben Hania vedi scheda film
VENEZIA 82 - CONCORSO
Nell'inferno che ha trasformato, in particolare da due anni a questa parte i territori attorno a Gaza in un luogo di tragedia di proporzioni da olocausto, nel gennaio 2024, durante le fasi di occupazione da parte dell'esercito israeliano di interi quartieri, nelle fasi di fuga della popolazione civile, una macchina con all'interno una intera famiglia, rimane indietro rispetto alle altre e viene bloccata da una serie di carri armati invasori.
La madre di famiglia chiama senza esitare il numero di soccorso della Mezzaluna Rossa, e il centro operativo non può che ascoltare indiretta il frastuono delle pallottole che crivellano l'automobile, decimando gli occupanti. Quando ogni speranza pare sia perduta, la voce di una bimba impaurita rileva che almeno la piccola è sopravvissuta. Nei restanti minuti della storia, si assiste al frenetico tentativo della squadra di soccorso per riuscire ad organizzare un invio di una autoambulanza per soccorrere la povera creatura impaurita, circondata da cadaveri di familiari, costretta ad asseragliarsi tra le lamiere crivellate di ciò che resta dell'auto di famiglia.
Sfruttando le drammatiche testimonianze telefoniche rimaste in archivio inerenti questo drammatico e complesso tentativo di salvataggio, la scaltra regista tunisina Kaouther Ben Hania ricostruisce la vicenda puntando Le riprese sui volti increduli e sconvolti della squadra di soccorso, prima coinvolta professionalmente, poi sempre più umanamente istigata a cercare di smuovere coscienze e burocrazie sorde ad una razionalità in questi casi preziosa ed indispensabile per salvaguardare vite.
È lecito sfruttare drammatiche testimonianze di morte vera, le disgrazie di intere famiglie massacrante per dar vita ad un prodotto di arte cinematografica che, prima di tutti gli altri fini, si prefigge di portare a termine obiettivi commerciali e partecipare a competizioni come lo stesso festival veneziano che lo ha scelto per il concorso principale competitivo?
A parere di chi scrive non lo è, e qualora si analizzi gran parte della filmografia della spregiudicata ed opportunista cineasta tunidina (almeno dai tempi del provocatorio L'uomo che vendette la sua pelle - 2020, fino a Quattro figlie - 2023), si possono solo evidenziare fastidiose scelte stistiche e narrative volte a suscitare clamori, attizzare emozioni a caldo, giocare sul potere persuasivo di situazioni estreme e reali che meriterebbero più rispetto.
La telecamera scandisce con calcolata premeditazione ed astuzia riprese accuratamente rivolte su volti in lacrime, su nervosismo ed isterismi volti a creare un pathos che susciti adeguato sdegno utile a creare un consenso unanime.
Il pubblico al Festival accoglie tutto ciò a braccia aperte, tra ovazioni e sentimenti di approvazione che non lasciano spazio ad ipotesi di fraintendimento, senza porsi il minimo dubbio sul fatto di essere parte consenziente di un ricatto subdolo a spese di morti e situazioni umanitarie degenerate che meriterebbero altri contesti di narrazione e sviluppo rispetto ad un film.
Il cinema ha senza dubbio il compito di raccontare eventi, fatti, tragedie che da sempre dilaniano la storia dell'umanità. Non può tuttavia arrogarsi il diritto di sfruttare testimonianze reali prese per fini o circostanze differenti e ben più urgenti ed estremi, al fine subdolo di accattivarsi consensi e favori, specialmente su questioni che chiunque essere umano dotato di raziocinio e sentimento dovrebbe aver già chiare in sé, tra sdegno e posizioni di rifiuto riguardo a carneficine che non spetta al mezzo cinematografico dover ripercorrere con l'utilizzo di reale documentazione.
La regista insiste per minuti, si fissa con determinazione sui visi inevitabilmente stravolti dei soccorritori, sui loro visi belli ed accattivanti, qualora siano buoni, meno belli, sin sgradevoli, quando invece descrivono chi si arrende alla sordid a burocrazia.
Un estenuante gioco strategico di primi piani sugli occhi lucidi del team di soccorso, che piange, si dispera (come peraltro è comprensibile che avvenga, meno comprensibile è la mancanza di tatto della cineasta), con lo scopo di far suo un pubblico, una giuria che, empaticamente, è naturale ceda umanamente a questa sorta di lucido e determinato ricatto emotivo.
E cederà davvero anche la giuria, avvinta da questo gioco emotivo che, personalmente, trovo insopportabile, giudico distorto, controverso, inquietante, davvero poco onesto.
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