Regia di Kaouther Ben Hania vedi scheda film
Questo è un film che, dietro a una facciata "spartana" e senza l'impiego di grossi mezzi, ha un alto valore politico e morale, è un esperimento sulla commistione tra diversi tipi di media e segni, ed è infine una grande metafora sulla missione del cinema. E' un film che comunque sviluppa una sfera pubblica e obbliga a prendere posizione.
The voice of Hind Rajab – necessario e a tratti insostenibile, soprattutto per chi è genitore, zio/a o comunque cardio-munito - non è un piccolo film premiato a Venezia con il contentino del Gran Premio della Giuria per il suo valore politico e morale ma, al contrario, un grande film che non ha vinto il Leone d'Oro probabilmente per ragioni politiche. La trama, tratta da una storia vera tra le troppe che si potrebbero raccontare oggi, è nota: nel gennaio 2024 un call center di un centro di emergenza in Cisgiordania riceve una telefonata ed entra in contatto con una bambina di 5 anni intrappolata in un’automobile a Gaza crivellata di colpi dall’IDF, accanto ai corpi senza vita dei suoi famigliari. Parte così una lotta contro il tempo per salvarla, ma le cose si complicano per l’esigenza di garantire il cosiddetto “coordinamento”, ovvero un corridoio di sicurezza per il mezzo di soccorso.
La regista sceglie di lasciare l’orrore fuori campo, mostrando solo il call center, affidando ad attori la parte degli operatori e intrecciando le loro interpretazioni con le tracce audio originali della vera Hind Rayab, oltre che con le foto della stessa e le immagini dei veri soccorritori. Pur nella sua confezione scarna, figlia dell’urgenza di raccontare la storia il prima possibile, non si tratta di un film povero ma di una scelta deliberata all’insegna della sperimentazione e della ricerca sui diversi tipi di media e segni (dalle onde che visualizzano sullo schermo le tracce sonore alle scritte sui vetri del call center che scandiscono il tempo). La scrittura è qui fondamentale e l’ibridazione tra finzione e documentario funziona in modo quasi impercettibile, non solo come operazione politica ma anche come stimolo a ragionare sul rapporto tra verità e finzione. In questo senso, la fedeltà al reale e l’uso dei materiali documentali rimandano a Bazin, per il quale il cinema è arte capace di rispettare la complessità del mondo, lasciando allo spettatore il compito di confrontarsi con essa.
Pur conoscendo già l’esito della vicenda, non c’è un momento di stanca: lo spettatore è avvolto dalla narrazione, che lo spinge a immedesimarsi negli operatori e nei loro dilemmi. E la scrittura favorisce la costruzione di personaggi sorprendentemente dinamici e tridimensionali, pur confinati in uno spazio limitato. Emblematica la figura del coordinatore, inizialmente percepibile come un Don Abbondio 3.0, burocrate ottuso e poco empatico, che però si rivela il vero perno narrativo, lo spartiacque tra l’idealismo di chi vorrebbe la bambina subito in salvo e il realismo che impone di evitare scelte suicide. Ancor più struggente, poi, la “costruzione del mondo” della piccola protagonista che, dapprima convinta che i parenti dormano, priva com’è degli strumenti per comprendere concetti come la morte e la guerra, è costretta in poche ore a varcare la propria linea d’ombra, passando dalla paura del buio e dalle richieste disperate di soccorso al senso di conforto effimero per le parole rassicuranti degli operatori che usano un linguaggio basato sulle dinamiche famigliari (le uniche che conosce), fino alla chiusura totale quando capisce che le cose stanno precipitando.
Chi non ha visto il film potrebbe temere la solita pornografia del dolore o chiedersi perché la regista non abbia optato per un documentario. In realtà, qui non ci sono ricatti emotivi: inserendo elementi di realtà come la voce vera della bambina, la regista afferma “questa storia è accaduta veramente”, lasciando a ciascuno la libertà di un giudizio personale. Ma più di tutto il film invita a riflettere sul ruolo del cinema. Le immagini della mappa GPS che segnala la posizione dell’ambulanza, che per arrivare a destinazione non può procedere in linea retta ma è costretta a scegliere un percorso più lungo e tortuoso, sono una metafora potente della missione del cinema, che è proprio quella di fare il “giro più lungo”. A differenza della cronaca e del documentario, che hanno il compito di restituire i fatti in modo diretto, tempestivo e lineare ma senza garantire un’esperienza trasformativa, il cinema è una costruzione complessa che, non avendo pretesa di realtà, è più libera di volare alto. Può prendersi tutto il tempo e le deviazioni di cui ha bisogno, selezionare una storia e un punto di vista e costruire una narrazione che arrivi al cuore delle cose, obbligando lo spettatore non solo a conoscere ma a sentire. Così, la cronaca sviluppa una sfera pubblica e si trasforma in spazio di riflessione collettiva, dove condividere emozioni e pensieri. Dove la notizia e i social si consumano in reazioni immediate e polarizzanti, il cinema costruisce un’esperienza comune che resta. Dopo un film come The Voice of Hind Rajab, non si esce solo informati: si esce scossi e chiamati a prendere posizione.
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