Regia di Federico Cammarata, Filippo Foscarini vedi scheda film
Piccole fiammelle nel buio, i rumori indicano che si tratta di un bosco. Le didascalie lo confermano: è il confine dell'Ungheria con la zona extra Shengen, e i migranti tentano di superare una recinzione di filo spinato elettrificato. Quelle fiammelle potrebbero essere torce, fari di auto; per come si dimenano, potrebbero anche essere i migranti stessi, che come lucciole impazzite si muovono in uno schermo totalmente nero, visibili da lontano, fonti di energia umana in una situazione fuori dall'ordinario. L'incipit, così come l'excipit, di Waking Hours, è folgorante perché è avanguardia visiva calata nella realtà, perché la realtà è stata deformata (e scurita) dalle contingenze socio-politiche ed appare ormai come surreale, fatta a squarci. Un intero sipario nero (con rari buchi) ha coperto le cose sul "green border" ungherese, e chi ha deciso di voler entrare in Ungheria soggiorna vicino alla recinzione in attesa del momento giusto, accampandosi in condizioni disagiate. Non tutti però vogliono andare in zona Shengen e la sensazione (post-umana) è che qualcuno lì vorrebbe proprio stabilirsi, in quel limbo fra civiltà e mondo selvaggio. Non pare un luogo di transito (illegale), bensì un luogo di immobilità. Senza incipit e excipit Waking Hours sarebbe un documentario troppo concentrato sull'effetto delle sue singole inquadrature buie che non sul possibile complesso di un lungometraggio contemplativo, sospeso, magnetico. Il suddetto magnetismo viene meno, perché quando Foscarini e Cammarata tentano il ritratto umano tutto si standardizza sulla frontalità diretta, quasi classica. Ben lontani, insomma, dalle guerriglie immersive di Sylvain George, o dai tableaux devastanti di Spectres Are Haunting Europe di Maria Kourkouta. Incipit e excipit però, come già detto, salvano l'esperimento: restituiscono l'umano a fronte di una rischiosa centralità teorica delle idee, e lo fanno nei più inquietanti silenzi di tutta la mostra di Venezia 82.
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