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Il mago del Cremlino

Regia di Olivier Assayas vedi scheda film

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La recensione su Il mago del Cremlino

di EightAndHalf
8 stelle

Un regista e una produzione francesi imitano volti ed eventi russi con il registro di un film americano. Già da questa trasversalità paratestuale – ma Assayas si inebria del paratesto quasi sempre – è possibile leggere Le mage du Kremlin come un trattato densissimo sulle grandi narrazioni (leggasi, le grandi immagini) del presente, un ragionamento molto pragmatico sull’agghiacciante possibilità che il potere, in modo paradossalmente naturale, abbia previsto qualsiasi riflessione teorica sulla liquidità del pensiero contemporaneo e sulle crisi delle democrazie (ma anche delle ideologie, e delle certezze estetiche sul cinema con loro) e l’abbia plasmato per direttissima sulla pelle del mondo negli ultimi trent’anni di Storia. In un concorso della mostra di Venezia (edizione 82) in cui il postmoderno non si bea nemmeno più di finte storie da cucire sopra il baratro, ma ci si limita a guardarlo, quel baratro (Bugonia di Yorgos Lanthimos, No Other Choice di Park Chan-wook, addirittura Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch), il film di Assayas torna a parlarci di immagini come reale contenuto politico dell’oggi. La storia del braccio destro di Putin, Vladislav Surkov, nascosto sotto il nome di Vadim Baranov, e interpretato da un sornione Paul Dano, è la carta giusta perché Assayas possa indagare l’urgenza di far Storia pratica in un millennio attraversato dal mero e invisibile etere – lo stesso Surkov/Baranov dice che in Occidente non c’è più interesse nella politica, e bisogna solo generare il caos – a valle di tanti ragionamenti contemporanei su come dopo la caduta del Muro di Berlino la Storia pareva essersi fermata. La prospettiva della Guerra in Ucraina, mai evocata dal film (che si ferma al 2019), pesa come un macigno come tanto altro invisibile (e cos’altro è la Storia se non l’invisibile che accade ora lontano dai nostri occhi?) ed è il motivo sostanziale di molte delle riflessioni politiche del film di Assayas: il desiderio collettivo contraddittorio per la verticalità centralizzante del potere, l’utilizzo di immagini imbonitrici (una riflessione sul kitsch, detta dal protagonista, che vale intere filmografie), la non-fine della Guerra Fredda, la simulazione degli archivi reali (un premio alle smorfie del Putin-Jude Law). È un film che, sornione quanto Paul Dano, attraversa il presente senza gesti autoriali estetizzanti, ma riempiendo il baratro teorico di chi non crede più in nulla nella coscienza di una prigione in cui tutti noi nel presente non sappiamo di trovarci. Non è complottismo, è il crudele buon senso di chi sta in alto e pedina il mondo, e che sia da una parte o dall’altra non ha importanza. C’è ancora materiale concreto su cui fare e pensare la Storia, ma la Storia (che è il potere) non vuole.

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