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Trama

Presentato a Cannes 2025, il film Qui brille au combat racconta la storia della famiglia Roussier, dove tutto ruota intorno a Bertille, la figlia minore, affetta da una grave disabilità di origine incerta. I genitori, Madeleine e Gilles, e la sorella maggiore Marion vivono un fragile equilibrio quotidiano fatto di cure, dubbi e speranze. Marion, adolescente in bilico tra maturità precoce e desiderio di fuga, cerca il suo posto in una vita dove l’amore si confonde con il peso delle responsabilità. Quando un nuovo verdetto medico fa emergere la verità sulla condizione genetica di Bertille, il futuro della famiglia cambia direzione. Forse non c’è più solo paura ma anche possibilità.

Nel film Qui brille au combat, Joséphine Japy affronta il tema della disabilità con uno sguardo profondo e delicato, lontano dalle retoriche consolatorie o drammatiche. La sua opera prima è un racconto personale che esplora i nodi invisibili della vita familiare: l’amore incondizionato, l’esaurimento emotivo, la colpa silenziosa, ma anche la resilienza quotidiana e la bellezza imprevista che può nascere dalla fragilità.

Ispirato dalla vita reale della regista e dal rapporto con sua sorella affetta dalla sindrome di Phelan-McDermid, il film Qui brille au combat adotta un linguaggio sobrio e intimo. Japy evita gli effetti estetici per avvicinarsi con sincerità ai corpi, agli sguardi, ai silenzi: il dolore e la dolcezza sono mostrati senza filtri, in un equilibrio raro tra pudore e verità.

Attraverso Marion, adolescente interpretata con grazia da Angelina Woreth, il film Qui brille au combat indaga la crescita obbligata, la fame di libertà, ma anche la forza dell’empatia. Al centro della scena c’è la sorellanza, ma in controluce emergono anche le fatiche dei genitori, interpretati con intensità da Mélanie Laurent e Pierre-Yves Cardinal, ritratti nel difficile esercizio dell’amore quotidiano che consuma ma tiene uniti.

Joséphine Japy firma un esordio che è insieme atto d’amore e presa di posizione. Co-sceneggiato con Olivier Torres, il film Qui brille au combat nasce dal bisogno profondo di raccontare “ciò che non si vede” nella rappresentazione della disabilità. La regista sceglie il realismo affettivo: filmare i corpi stanchi, i piccoli gesti, le pause cariche di significato. “Volevo un film discreto ma che non distogliesse lo sguardo”, afferma.

Girato in 1.66 per suggerire l’intimità claustrofobica di certe giornate sempre uguali, il film racconta anche il carico mentale, la solitudine dei caregiver, e le domande sospese sul futuro. Eppure, non manca la luce: nei sorrisi, nelle connessioni silenziose, nella capacità di tenere insieme una famiglia attraverso il dolore e l’amore.

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