Regia di Kathryn Bigelow vedi scheda film
Nell’universo cinematografico di House of Dynamite il potere, la paura e la percezione si intrecciano fino a farsi indistinguibili. Come da consuetudine nel cinema di Kathryn Bigelow, la macchina a mano diventa uno strumento di tensione e partecipazione: i repentini spostamenti da un personaggio all’altro, i piccoli zoom improvvisi, ci conducono attraverso spazi istituzionali, tecnici e simbolici. Bigelow oltre a mostrarci ciò che accade, sottolinea come lo percepiscono coloro che abitano quei luoghi, instaurando una dialettica tra le immagini e lo stato emotivo dei personaggi.
I luoghi stessi sono portatori di senso. La Situation Room della Casa Bianca, il FEMA, la Press Briefing Room, la piattaforma radar SBX sono tutti spazi attraverso cui la regista costruisce una vera e propria cartografia del potere contemporaneo. Ognuno di essi racconta un frammento della macchina del controllo americana: dalla mente strategica della Situation Room, al corpo operativo del FEMA, alla voce pubblica della Press Room, fino all’occhio assoluto della piattaforma radar sospesa sul Pacifico. Quando il missile nucleare, partito da un luogo indeterminato, viene rilevato dalla SBX, l’informazione è tanto completa quanto insufficiente. I dati esistono, ma la conoscenza resta ambigua; l'invisibile catastrofe si avvicina, implacabile.
La tensione narrativa viene amplificata attraverso un'intelligentissima gestione del tempo. Il volo dell'ordigno, nella storia, dura diciannove minuti, ma Bigelow li dilata per oltre un’ora e mezza, sfruttando il meccanismo della ripetizione ma diversificando, però, di volta in volta, i punti di vista. È In questo gioco di contrazione e dilatazione temporale che si costruisce la frattura tra la velocità della tecnologia e la lentezza umana, tra il calcolo e la paura, tra l'ordine istituzionale e il caos emotivo. Il montaggio serrato, che alterna i punti di vista dei vari personaggi, non esita mai a costruire un contrappunto umano : pensiamo ai volti terrorizzati o rassegnati di chi chiama la madre forse per l'ultima volta, di chi resta pietrificato davanti ai monitor, o anche di chi vomita in preda al panico. L’angoscia diventa collettiva, fisica, immediata, e il fuoricampo si si configura come il cuore stesso della suspense.
È un gioco narrativo che funziona in modo pressochè perfetto : la stessa azione può essere osservata dalla Observation Room o dalla Stratcom, prima mediata dagli schermi, poi direttamente dall’interno dei luoghi operativi. In modo analitico e preciso, la regista ci mostra che la realtà è sempre filtrata dal dispositivo con cui la si osserva: lo schermo, il radar, il sensore, il monitor, lo smartphone. I dialoghi in videochiamata diventano una ragnatela narrativa, e trasformano la distanza fisica in tensione drammatica.
Il linguaggio tecnico e burocratico del potere entra nel film attraverso sovrimpressioni e acronimi, come il GBI (Ground Based Interceptor). Le sigle, gli schermi, i codici, diventano strumenti di drammatizzazione, il linguaggio disumanizza la catastrofe, eppure la amplifica, trasformando ogni gesto e ogni scelta in una potenziale catastrofe, come ricordato dalla frase dell'obamiano presidente interpretato da Idris Elba : “È come vivere in una casa imbottita di dinamite”. Il titolo del film acquista allora il suo pieno senso: la “casa” non è solo lo spazio istituzionale, ma la mente, il sistema, la società stessa, precariemente sospesa tra controllo e disastro imminente.
Il finale è aperto, perché non vediamo l’impatto dell'ordigno su Chicago, non sappiamo chi l’abbia lanciato, se fosse un errore, un attacco nemico o chissà cos’altro. La paranoia è allora il vero oggetto di indagine del film. Bigelow lavora sul fuoricampo e lo rende il logos del racconto: ciò che non vediamo e non comprendiamo genera una suspense intensissima, e rende il film un esercizio esemplare sulla paranoia contemporanea.
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