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Elena del ghetto

Regia di Stefano Casertano vedi scheda film

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La recensione su Elena del ghetto

di pazuzu
7 stelle

Il ritratto di una donna forte, coraggiosa e profondamente sovversiva, che combatteva per l'autodeterminazione propria e per la libertà della propria gente, mostrandosi decisa e generosa sempre. Fino alla fine.

 

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La notte tra il 15 e il 16 ottobre del 1943, sotto una pioggia battente, una donna corre tra le strade e i vicoli del ghetto ebraico di Roma, e in barba allo shabbat e al coprifuoco, urla a squarciagola per svegliare più gente possibile: bisogna fare i bagagli e scappare, perché domani i tedeschi arrivano e portano via tutti. Il suo allarme, però, viene ignorato dal suo popolo, perché lei, in fondo, è 'Elena la matta'. E come si fa a dare credito a una con quell'appellativo lì?

 

 

Elena del ghetto, di Stefano Casertano, si ispira alla vera storia di Elena Di Porto (raccontata anche nel libro di Gaetano Petraglia La matta di piazza Giudia del 2022, citato nei titoli di coda).
Elena è considerata matta perché abituata a rispettare il prossimo e farsi rispettare lei stessa, perché è scappata dal marito ubriacone, lavativo e manesco in un'Italia nella quale la donna è abituata ad obbedire all'uomo, a mettere la gonna, a stare a casa a badare ai bambini e ai fornelli; è considerata matta perché gelosa della propria libertà e della propria indipendenza; è matta perché sincera, spontanea e senza peli sulla lingua.
Elena è matta perché è testardamente anticonformista, è matta perché precorre il femminismo in tempi di fascismo.

 

 

Dopo l'incipit sopra descritto, il film di Casertano torna indietro al 1938, a poco prima dell'introduzione delle leggi razziali, e da lì parte con la descrizione della quotidianità di questa donna che porta i pantaloni e gli straccali perché le piace così, che gioca a biliardo meglio degli uomini, che tira di boxe dando pugni e accettando di riceverli, che fuma e che prende di petto i fascisti quando in sei contro uno accerchiano e bastonano il malcapitato di turno, finendo denunciata, spedita al manicomio, e poi refertata come antisociale e deviata in quanto ebrea.

 

 

Casertano si incolla a questa donna guidata da niente altro che senso della giustizia, e affida a Micaela Ramazzotti il compito di restituirne la sfrontatezza ed il coraggio, realizzando un racconto commovente che consegna la ribalta ad un personaggio poco noto al netto delle onorificenze recenti (c'è un olivo nel Giardino dei Giusti dell'Umanità di Roma a lei dedicato, e una pietra d'inciampo apposta in Via Portico d'Ottavia), inserendo, all'interno di una descrizione minuziosa e senza sconti del crescendo di violenza disumanizzante che fu il nazifascismo, il ritratto di una donna forte, coraggiosa e profondamente sovversiva, che combatteva per l'autodeterminazione propria e per la libertà della propria gente, mostrandosi decisa e generosa sempre. Fino alla fine.

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