Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
Saranno gli impulsi sessuali, le erezioni, le ficheselvagge, a far detonare le istanze radicali (e poi quelle reazionarie) che porteranno alle bombe, alle esplosioni, alle incursioni nei campi di prigionia degli immigrati, con la folle idea che il mondo possa cambiare e che l’azione violenta (o il cazzo di qualche uomo) sia la leva giusta sulla quale spingere per farlo. Finito l’orgasmo bombarolo, prosciugata l’estasi del gesto anarchico, le maree dell’insurrezione si ritirano nei recessi delle proprie sconfitte, nei programmi di protezione, nelle spiate sui vecchi compagni, nelle fughe, nel paranoico limbo dell’erba, nelle false identità.
Sbiadito l’ardore giovanile, ci si dimentica di chi si è stati, non si ricordano più i vecchi slogan o si ripetono in una pantomima del passato, le frasi in codice sono annegate nell’alcol o nel vuoto mnemonico lasciato dal passaggio di varie sostanze psicotrope e quello che Paul Thomas Anderson sembra mettere in scena, rielaborando liberamente il materiale di Vineland, un romanzo di Thomas Pynchon, è una irriverente presa per il culo dei modelli rivoluzionari (e militari) americani - Il tentativo di creare (quando l’ideologia viene messa in secondo piano) un legame parentale che riequilibri la chiamata al caos e al disordine con la parvenza di una normalità familiare che comunque rimarrà irraggiungibile.
L’intreccio di eventi in cui restano invischiati Bob Ferguson/Ghetto Pat (Leonardo di Caprio) e la figlia adolescente, inseguiti dall’ambiguo colonnello Steve J. Lockjaw (Sean Penn), riproietta Bob in un mondo (di armi, complotti, frasi segrete) di cui non capisce più nulla e nel quale risulta essere inadeguato e incompetente (come d’altro canto nel ruolo di padre) mentre la figlia precipita in una dimensione oscura, clandestina e nascosta, paurosa e seducente, nella quale ha la possibilità di raggiungere una maggiore consapevolezza di sé stessa, anche se questo significherà passare attraverso zone d’ombra e menzogne, violenza e coraggio, in un rocambolesco viaggio di iniziazione personale.
Lo spaccato sociale e politico parallelo all’isolata vita di Bob fra i boschi è quello di un’America militarizzata e suprematista, desiderosa di porre fine a chiunque non appartenga alla razza bianca predominante, fuori gli immigrati, il terrore del meticciato, con la presenza di società segrete natalizie pronte a fare pulizia etnica quando necessario. I baluardi di resistenza rimasti sono davvero pochi e bizzarri: un istruttore di arti marziali che aiuta gli immigrati clandestini, un gruppo di suore dedite al culto e alla coltivazione della maria, tenaci e combattive.
Nel sinuoso e visionario inseguimento finale, su strade che appaiono come onde di asfalto nel deserto, ci si immerge in una deriva lisergica dell’azione stessa, nella capitolazione filmica all’instabilità visiva e narrativa, alla sua frantumazione postmoderna, mentre i personaggi rincorrono fantasmi, errori, ordini e parvenze di soluzioni - Magari sono solo giochi di potere quelli a cui abbiamo assistito, fatti per aumentare l’eccitazione, nel sesso come nelle gerarchie di ogni società, esercito, luogo di lavoro.
Il consumismo riassorbirà ogni infrazione, risanerà ogni rottura, l’ultimo modello di cellulare in mano, altro oggetto allucinatorio, le chiamate alla radio della prossima manifestazione, ennesima moda giovanile in cui sfasciare tutto o reale esperienza comunitaria di ribellione?
Esemplare lo sforzo del regista per raccontare la rivolta (e le sue conseguenze) in una realtà che sembra prossima alla nostra eppure rimane magnificamente cinematografica, un film che scorre indomito, suadente, ipnotico - Inseguito (forse appesantito?) da una colonna sonora inarrestabile, quasi un contrappunto costante alle immagini, tra effetti stranianti e altri di amplificazione emotiva, mentre ci godiamo le (dis)avventure di chi appare e scompare sullo schermo, sempre sul bilico della disfatta, mentre l’eco delle bombe che avrebbero dovuto salvarci diventa sempre più fievole e distante.
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