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Una battaglia dopo l'altra

Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film

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La recensione su Una battaglia dopo l'altra

di IlCinefilorosso
8 stelle

Una battaglia dopo l’altra segna un momento cruciale nella filmografia di Paul Thomas Anderson, non soltanto per la scelta di tornare a confrontarsi con Thomas Pynchon, ma per il modo in cui questa operazione di adattamento si colloca all’interno della sua idea di cinema. Non è la prima volta, infatti, che il regista porta sullo schermo un’opera dello scrittore americano: già con Vizio di forma aveva affrontato l’universo pynchoniano, tentando una trasposizione fedele, quasi letterale, che traduceva il testo originale in un film volutamente sfuggente, denso di ellissi e atmosfere nebulose. Con Una battaglia dopo l’altra, invece, Anderson sceglie una via diversa: pur restando fedele allo spirito dell’autore, costruisce un’opera più solida, compatta e leggibile, capace di muoversi lungo coordinate narrative lineari senza rinunciare a quella complessità che contraddistingue tanto Pynchon quanto la sua stessa poetica.

 

Il racconto, come suggerisce il titolo, è interamente attraversato dall’idea di movimento: i personaggi si spostano da un luogo all’altro, attraversano spazi, inseguono obiettivi, tentano di mettere in pratica strategie politiche o personali. Ciò che li accomuna, al di là delle appartenenze ideologiche, è il fallimento costante. Né i rivoluzionari né i suprematisti bianchi riescono a realizzare i propri intenti; entrambi i fronti finiscono per scontrarsi con l’impossibilità di dare concretezza alle proprie aspirazioni. Anderson svuota così il conflitto di qualunque retorica epica, riducendolo a una sequenza di azioni inconcludenti, a un peregrinaggio senza approdo. I protagonisti si muovono, ma non avanzano mai realmente; combattono, ma non vincono mai davvero.

In questo risiede la forza dell’opera: la rinuncia a una visione manichea, la negazione di qualsiasi dicotomia semplicistica tra “eroi” e “nemici”. Tutti i personaggi di questa parabola risultano figure grottesche, caricaturali, incapaci di incarnare la grandezza che vorrebbero rappresentare. Qui emerge un altro elemento centrale: la paranoia. La narrazione è attraversata da un clima costante di sospetto, di ansia, di attesa irrisolta. I personaggi agiscono come se fossero sempre spiati, come se ogni gesto fosse destinato a fallire in anticipo. Anderson coglie con straordinaria lucidità una condizione che appartiene non soltanto alla diegesi del film, ma al nostro presente: la contemporaneità come epoca segnata dall’incertezza, dall’angoscia di essere intrappolati in sistemi di controllo e sorveglianza. La paranoia diventa così uno dei motivi principali del film, ciò che lega la dimensione storica evocata dal romanzo all’esperienza quotidiana dello spettatore odierno.

 

Questa tensione tra fallimento e sospetto si intreccia con un nodo più ampio e decisivo: la posizione di Anderson nel panorama contemporaneo. Da un lato, appare come uno degli ultimi registi capaci di credere nelle grandi narrazioni. Il petroliere mette in scena la parabola titanica del capitalismo americano e la sua vocazione distruttiva; Il filo nascosto trasfigura in forma quasi mitica la tensione tra arte, potere e desiderio; Magnolia si configura come una tragedia corale che intreccia i destini di un’intera comunità, restituendo un’epopea quotidiana intrisa di colpa e redenzione; The Master esplora invece il mito delle origini di una nuova religione, interrogando al tempo stesso la fragilità del bisogno umano di credere e appartenere. Anche Boogie Nights, sebbene apparentemente più legato a un immaginario popolare, racconta in realtà un’ascesa e una caduta dal respiro quasi biblico, inscrivendo la vicenda di un gruppo di outsider in un affresco che riflette l’illusione e il disincanto del sogno americano.

 

Eppure, allo stesso tempo, Anderson è inevitabilmente un autore postmoderno. La scelta di confrontarsi per due volte con Pynchon, uno degli scrittori cardine della postmodernità, non è casuale. La postmodernità coincide con la crisi delle grandi narrazioni, con l’impossibilità di prenderle interamente sul serio, di crederci fino in fondo. Ed è qui che il suo cinema rivela tutta la sua singolarità: le opere di Anderson mettono in scena la mitologia americana, ma nello stesso momento la incrinano, la smascherano, la mostrano come qualcosa di corroso, impossibile da vivere nella sua purezza. Non rinuncia alla monumentalità del racconto, ma la riempie di crepe, di ironie, di scarti che impediscono allo spettatore di abbandonarsi totalmente al mito.

 

In Una battaglia dopo l’altra questo paradosso raggiunge una delle sue forme più compiute. Anderson si muove tra due poli apparentemente inconciliabili: il desiderio di raccontare un’epopea e la consapevolezza che ogni epopea, oggi, è inevitabilmente segnata dal fallimento e dalla paranoia. È in questa tensione irrisolta che il film trova la sua forza: un’opera che non celebra nessuno, che non offre alcuna vittoria, che non concede trionfi simbolici, ma che proprio per questo restituisce con straordinaria precisione lo spirito del nostro tempo. Anderson costruisce un cinema che è insieme classico e postmoderno, grandioso e ironico, mitologico e disilluso.

Il film, quindi, non è soltanto l’adattamento di un romanzo complesso: è la dimostrazione di come un autore possa muoversi tra le macerie delle grandi narrazioni, provando ancora a evocarle, ma senza dimenticare che la loro aura, oggi, non può che apparire incrinata. È un film sul movimento, sul fallimento, sul sospetto, che restituisce la sensazione di un’epoca in cui la battaglia più grande non è quella per la vittoria, ma quella di riuscire a raccontare, ancora una volta, la possibilità stessa di una narrazione.

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