Regia di Donald Cammell vedi scheda film
Quando Donald Cammell si suicidò sparandosi, il 24 aprile del 1996, da qualche parte come nella biografia scritta dalla moglie China, che egli le chiese in attesa dei soccorsi oramai inutili e ancora sopravvissuto, di portargli uno specchio per vedersi mentre stava morendo. Esattamente quello che l'assassino fa alla più giovane delle sue vittime nel film, porgendogli davanti uno specchio da parrucchiere alla faccia mentre ella sta affogando emettendo le ultime bolle nell'acqua, buttata legata in una trapunta come un salame con del filo elettrico, nella vasca da bagno.
Ecco basterebbe soltanto questo almeno per me, a comprendere quanto quelle poche righe al vetriolo scritte da Keith Richards su Cammell nella propria biografia, siano forse dettate in massima parte da rancori personali, e comunque egli si è suicidato a circa 52 anni quindi probabilmente più sensibile degli altri, Richards è ancora qui come parodia ultraottantenne di sè stesso, a macinare miliardi.
"L'Occhio del terrore"(White of the Eye) rivedendolo adesso a 22 anni dalla ultima volta quando non poteva proprio arrivare come adesso viste le notazioni notevoli sui rapporti di coppia uomo-donna, lo si nota anche quale epigono ma di pregio e con diversi punti di contatto estetici e tematici da "Manhunter- Frammenti di un omicidio" di Michael Mann, sarebbe scontato citare la maschera metà rossa di pittura rituale indiana che si fà Keith David nel finale, e l'estrema cura visiva che lo impagina ad ogni singola immagine. Anche ricorrendo a diversi stili e tecniche sia di formato che di montaggio. I personaggi però sono tutti forse volutamente poco simpatici e per cui provare una grande empatia, ad eccezione dell'ex fidanzato mezzo indiano della protagonista Cathy Moriarty, l'unico che aveva saputo e visto senza però ovviamente dirlo alla compagna fedifraga, della manifesta follia e pronta a deflagrare del protagonista che non nominerò, per non rivelare troppo di un film poi poco visto, a queste latitudini.
La sceneggiatura dello stesso Cammell con la sua giovane moglie China, ha dei buchi e delle incongruenze, a differenza di quella del citato punto di riferimento e ascendentez diretto nel 1986 da Michael Mann; però Cammell scava lo stesso bene nelle psicologie dei personaggi come un film di esploitazione pura del filone dei serial killer, non farebbe. Con una certa convinzione anche nel suo descrivere un quadro di forte psicopatologia, e il perché probabile delle sue origini. Impossibile se non a chi davvero non capisce nulla di cinema e neanche di audiovisivo in senso largo, non capire nè essere in grado di apprezzare la grandiosa composizione del finale nella cava abbandonata con l'esplosivo della dinamite.
Cammell non poteva in nessun caso al suo terzo lungometraggio in venti anni, confezionare un film banale, anche perché non lo ha mai fatto e non gli poteva riuscire capace, visionario e inventivo come era. E alla stessa maniera dell'ex socio e collaboratore Nicolas Roeg, con "Mille pezzi di un delirio" e "Oscuri presagi", o di Mike Hodges con "Arcobaleno nero", sempre fra seconda metà degli anni ottanta e primissimi novanta, piega un racconto familiare tra marito e moglie con figlioletta, di follia alla "Shining" citazione obbligata e abusata, per filtrare quella che oggi sarebbe in molti casi banalizzata in un discorso pedagogico-didascalico, in un semi-capolavoro visivo, veicolo di un incubo razionale.
Molto bravo David Keith a tenere sul filo un personaggio come il suo fino a venti minuti dalla fine e che si svela proprio per un filo per quel che è, arrapante e gran sorca la Moriarty, ma non è da dimenticare pure la porca ninfomane, ricca e incorreggibile tentatrice, impersonata da Angela Watson.
John Diehl venne tagliato al montaggio, ma lo si può ritrovare nella scena tagliata contenuta nelle edizioni in alta definizione su BD.
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