Regia di Mohammad Rasoulof vedi scheda film
Opera radicale del grande regista Mohammad Rasoulof, che ha il grande merito di mettere nel cuore della scena le donne e il demerito di togliere dalla mente dello spettatore la centralità dell’essere umano a favore di un fattore che possiede troppo i connotati della soggettività: l’ideologia.
Per comprendere la natura di quest’opera solidissima, coraggiosa, con una appropriata incoscienza adolescenziale (in quanto condivide lo stesso sangue nelle vene che scorre nelle giovani protagoniste), è utile partire dal fotogramma scelto come emblema da apporre sulla locandina del film: una ragazza col capo e (soprattutto) gli occhi coperti.
La volontà di un regime di perpetrare l’eredità di una visione univoca del mondo e dell’esistenza ai suoi posteri; ad essa si contrappone una volontà contraria che ribolle e si diffonde in una generazione pronta a rifiutare questa eredità in quanto concettualmente matura, ma soprattutto ad essere maturato è il tempo.
Il tempo ha portato nelle case prima (con le tv e internet) e nelle tasche poi (con gli smartphone e i social) il seme della concezione politica e sociale della vita così come concepita dal mondo occidentale, piantandolo nel terreno fertile delle giovani menti e dei giovani cuori della altrettanto giovanissima generazione iraniana.
Nella pellicola c’è tutto, ha il grande merito di tratteggiare con chirurgica precisione le linee di demarcazione generazionali delineate dal tempo, convogliandole in tre donne: la madre, donna matura con un background ben definito, aderente alla sua cultura, nel cui cuore sorgono i primi vagiti (con severità e decisione sopiti) di una visione più acuta del suo mondo che gli permette di scorgerne crepe e incongruenze; la figlia maggiore, sul finire dell’adolescenza, con una visione pienamente acuta e critica del mondo che l’ha cresciuta ed educata, che da voce all’interno delle mura domestiche alle sue remore ma nei fatti resta sofferentemente ancorata al sistema; la figlia più giovane, nella fase dell’alba adolescenziale, rappresenta la piena maturità del tempo e di una sopraggiunta generazione pronta a divincolarsi (dimenandosi) da quel sistema a cui non si sente di appartenere, che subisce pienamente l’attrazione dello stile di vita occidentale eletto a simbolo di progresso e libertà. Una volta innescato, il processo è irreversibile, e i tentativi di impedirne la detonazione prima e soffocarne le fiamme poi sono manifestazioni di forza e violenza il cui crescendo in intensità e acredine è (purtroppo) inevitabile.
La sceneggiatura fa della concettualizzazione ideologica il suo solco tracciato, i personaggi, gli eventi e addirittura i luoghi in cui gli eventi avvengono sono a pieno servizio di una ben definita simbologia per definire e classificare, giudicare e condannare (senza mezzi termini e senza possibilità di appello, senza voce di contraltare o attenuante alcuna) individui e istituzioni, cultura in quanto storia (personale e di un popolo) e religione.
Mohammad Rasoulof, idealista convinto e praticamente in esilio dal suo paese, ammirevole per la ferma adesione e presa di posizione a favore dei suoi principi (alcuni personali, altri inalienabili) con “Il seme del fico sacro” impugna penna e macchina da presa e giudica tutto e tutti.
Questa grande forza morale paradossalmente rappresenta un po’ un punto debole di quest’opera ammirevole e potente ma al tempo stesso forzatamente indirizzata e inculcata.
Lo sceneggiatore e regista, quasi come a voler spingere con dirompenza le giovani masse a scrollarsi dì dosso il giogo di un regime repulso, con la stessa irruenza dirige e indirizza il suo stesso film tessendo la trama con un unico rigidissimo filo verso un preciso, inequivocabile e insindacabile epilogo: la condanna.
Il marito e padre, e neo giudice istruttore a servizio del governo iraniano, ha una sua coscienza, una sua fede, una sua umanità, ma si sceglie di deformarne i lineamenti man mano che la ribellione al sistema a cui appartiene affiora e si instaura in casa sua, tra i suoi affetti, nelle sue figlie e infine la moglie; viene elevato a simbolo e vessillo di un regime che rende disumani, che rinchiude, rapisce, che rincorre e insegue i suoi avversari per piegarli e assoggettarli, un regime i cui figli dovranno per forza di cose sparargli contro e farlo sprofondare nell’oblio della storia, polverosa, antica, dolorosa, vecchia, per poi affacciarsi al nuovo.
Il soggetto è delicato e tocca coscienze e sensibilità da maneggiare con cura, le violenze perpetrate contro i dissidenti non si giustificano e i diritti inviolabili dell’essere umano vanno difesi senza mediazioni.
Con questo doveroso presupposto, il bravissimo autore e regista avrebbe dovuto dare alla sua opera un più ampio respiro e soprattutto la libertà di farsi strada da sola, così come dovrebbe essere consentito alla giovane generazione iraniana di farsi strada nel mondo, creandosi il suo mondo. Rasoulof questa volta la prende per mano, la forza, la spinge nella mischia imponendogli di lottare e per cosa lottare, ha abbracciato una parte di giusto e la impone ai suoi giovani connazionali e allo spettatore.
Perché in fin dei conti anche le libertà promosse dagli stati democratici occidentali è una parte di giusto in cui risiede la sua parte di sbagliato, senza negare a culture diverse (millenarie come quella iraniana) la sua parte di giusto senza per questo esimersi dal condannare la sua parte di sbagliato che è un profondo atto dovuto.
Tra promuovere degli ideali e imporre il proprio idealismo il confine è alquanto labile, e con tutte le buone intenzioni oltre che probabilmente sfiancato dalla censura e i procedimenti penali a cui è stato sottoposto, l’autore ha varcato questa soglia con una durezza e una rabbia comprensibilissime.
Vittima di quello stesso sistema intimidatorio, gli va attribuito il merito di averlo portato sul grande schermo con grande abilità tecniche e artistiche oltre che morali; la storia è di forte impatto e lo spettatore ne risulta segnato così come ognuno dei protagonisti non esce completamente indenne dalle vicende. La pellicola assume dapprima la naturale forma del plot drammatico/sociale per poi virare verso un registro diverso con le chiari connotazioni di un thriller e attraversato da un inaspettato senso di azione.
Misurate e ed efficaci le interpretazioni degli interpreti, il film trova la sua vera protagonista (sia per centralità -nel vero senso della parola in quanto a far da ago della bilancia e realmente al centro tra due fuochi- che per evoluzione del suo personaggio) in Soheila Golestani che interpreta Najmeh, moglie e madre su cui letteralmente crolla il (difficilissimo) mondo addosso.
Un’opera immancabile e su cui riflettere e che aiuta a comprendere la stretta attualità, un’opera che avrebbe dovuto concedere a chi la ammira la stessa apertura e libertà mentale che si richiede a gran voce per le strade di Teheran. . .altrimenti si finisce per assomigliare troppo al fico sacro.
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