Regia di Hideo Nakata vedi scheda film
La grande intuizione dei J-Horror - di cui “Dark Water” rappresenta una delle massime espressioni - fu indubbiamente quella di traslare l’orrore verso una dimensione quotidiana e tangibile, nella quale convogliare timori atavici e contemporanei degli abitanti del Paese del Sol Levante in quanto tali e, allo stesso tempo, in quanto cittadini di un mondo a cavallo dell’onda lunga della globalizzazione.
La pellicola di Hideo Nakata - già genitore del seminale “Ringu” (“The Ring”) - conferma un approccio al genere strettamente intimo, circoscritto a pochi personaggi e ambienti, trovando il proprio cardine nell’ereditarietà del trauma, trasmesso di generazione in generazione come un cromosoma malato, inesorabile nella perpetuazione dei suoi nefasti effetti fino al punto di non ritorno.
Lo sguardo sull’alienazione metropolitana del Giappone - condizione che proprio con l’inizio degli anni duemila vide un vistoso incremento in termini di pervasività - si riflette in un minimalismo visivo e sonoro, concettualmente distante dal rumoroso approccio occidentale che, non a caso, attingerà a piene mani dal fiorente filone asiatico, inanellando - a stretto giro - un remake dopo l’altro.
Lo stato di crescente tensione, frutto del ventaglio di ansie e paure latenti della protagonista - derivanti da un passato destabilizzante e da un presente incerto - si materializza nell’inospitale degrado strutturale della sua nuova dimora: un luogo che per antonomasia dovrebbe rappresentare porto sicuro, diviene invece teatro del perturbante, in una dialettica costante tra interno ed esterno, corpo e ambiente.
Quando la fessurazione emotiva si fa troppo profonda, divampa definitivamente il soprannaturale, sobrio e spoglio da eccessivi effetti visivi, straordinariamente inquietante nella propria compenetrazione nell’ordinario.
Con la scena dell’appartamento allagato a fungere da manifesto nonché apice estetico, l’elemento naturale è sapientemente trasformato in angosciosa minaccia, a innescare un simbolico cortocircuito dagli illustri precursori — indimenticabile l’episodio “La goccia d’acqua” de “I tre volti della paura” di Mario Bava — che in questo contesto si carica di un significato ulteriore, legato alla cultura e all’assetto territoriale nipponico. Si pensi, da una parte, al tradizionale atto di purificazione necessario prima dell’ingresso nei templi - consistente nel lavaggio di mani e bocca - volto a eliminare le impurità dell’anima e a ritrovare un’intrinseca armonia, così come al variopinto parterre di kami (spiriti sacri della natura e degli antenati) nelle proprie manifestazioni benevole, associate a piogge, fiumi e sorgenti, simboli di vitale prosperità; dall’altra parte, con brutale immediatezza, irrompe dalla memoria collettiva la furia di tifoni e tsunami, che dall’alba dei secoli funestano con impeto mortale l’arcipelago, a stabilire un acquatico confine tra dimensione terrena e aldilà, un limbo che è culla degli yurei (fantasmi del folklore), inquieti nella propria tragica fine, talvolta sopraggiunta proprio in circostanze di alluvioni o annegamenti, come accade nel film.
Trascinato dalla corrente in un incubo al contempo concreto e allegorico, lo spettatore non può far altro che abbandonarsi alla visione di “Dark Water” cercando di restare a galla nelle torbide acque della propria mente, consapevole che, a ogni istante, potrebbe colare a picco per poi riemergere come prossimo spettro infestante.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta