Regia di Halfdan Ullmann Tøndel vedi scheda film
Armand, un bambino di sei anni, aggredisce Jon, un compagno di classe, compiendo su quest'ultimo degli abusi sessuali. O, almeno, questo è quanto la madre della vittima (Petersen) riferisce al preside, il quale affida a una maestra (Vaulen) il compito di mediare tra la madre di Armand (Reinsve) e i genitori di Jon. A mano a mano, la verità sembra emergere, ma non senza lasciare dietro di sé una scia di ambiguità e sospetto.
Alla sua opera prima (Caméra d'or a Cannes 2024), Halfdan Ullmann Tøndel, nipotino di Ingmar Bergman e Liv Ullmann (scusate se è poco), firma un film che parte come un kammerspiel ad altissima tensione, quasi un Carnage nordico, per poi scivolare verso una dimensione più inquieta, dove l'onirico s'intreccia al metafisico. A quel punto i rancori e le colpe, i silenzi e le ferite irrisolte dei personaggi vengono a galla, insieme a un'ironia tragica che smonta ogni certezza. Il confine tra verità e menzogna, tra gioco infantile e pulsione oscura, diventa talmente labile da sembrare un esperimento sociale più che un dramma privato. Pur recitato da un cast in stato di grazia, il film si perde via via nel proprio labirinto, vittima della stessa claustrofobia che descrive. Rimane però il coraggio di un esordio che tenta di dire qualcosa di universale sul giudizio, la paura e l'eredità dei sentimenti. Un tentativo tanto nobile quanto irrisolto.
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