Regia di Xavier Legrand vedi scheda film
Xavier Legrand, già apprezzato regista esordiente dello sconvolgente L’affido – Una storia di violenza, premiato a Venezia, non molla l’argomento ed al suo secondo film torna a trattare con un thriller drammatico e tesissimo la violenza maschile e la sopraffazione sulle donne. Ciò che fa impressione è la precisione chirurgica di regia e script.
Xavier Legrand, già apprezzato regista esordiente dello sconvolgente L’affido – Una storia di violenza, premiato a Venezia 2017, (era stato anche giovanissimo attore esordiente in Arrivederci ragazzi di Luois Malle), non molla l’argomento ed al suo secondo film torna a trattare con un thriller drammatico e tesissimo la violenza maschile e la sopraffazione sulle donne, stavolta anche tanto giovani. Ciò che fa impressione è la precisione chirurgica sia della regia che della sceneggiatura, facendosi solo aiutare, in questa occasione, dal collaboratore nello script Dominick Parenteau-Lebeuf, con il risultato di tenere sempre alta la tensione, sin da primo minuto, anche quando pare l’inizio di un film che racconta semplicemente il mondo frenetico dell’haute couture e i continui cambiamenti che questo richiede per stare al passo con i tempi e con le mode previste. Loro, gli stilisti, cercano sempre di anticiparli per farsi trovare pronti o per lanciare le loro idee.
L'erede (2024): Marc-André Grondin
Le prime sequenze, infatti, ci mostrano la febbrile campagna di lancio della nuova linea che vede in primo piano il successore del precedente direttore artistico alle prese con le sfilate e con le copertine delle riviste che contano. Ellias Barnès (Marc-André Grondin) è giustamente ambizioso e preoccupato e sotto quella pressione avverte disturbi e anomalie al cuore. È evidente, come gli conferma la dottoressa che lo visita, che non sono problemi cardiaci bensì attacchi di panico dovuti allo stress professionale, ma la notizia improvvisa della morte del padre che vive in Canada – e che non sente da una ventina d’anni per problemi di compatibilità – proprio per un ictus seguito da un infarto, lo mette maggiormente in ansia, immaginando una patologia ereditaria. L’erede a doppia funzione? Di professione e di malattia familiare? Sono due argomenti che lo preoccupano ancor di più e nel mezzo del set fotografico che lo vede coinvolto è costretto, suo malgrado, dando maggior risalto al distacco affettivo dal padre, a mollare tutto e partire per il Québec, a Montréal, almeno per gestire i funerali e occuparsi della vendita della casa dove abitava il defunto.
L'erede (2024): Marc-André Grondin
Pensava di assentarsi solo per qualche giorno, come succede sempre in questi casi: vado, firmo, organizzo, presenzio, vendo e magari faccio una donazione degli oggetti e dei vestiti, ma torno presto, tanto c’è anche una Mercedes con autista a disposizione. Sarà veloce, immagina. Ed invece il destino riserva sempre delle sorprese. Solo che stavolta si va oltre ogni previsione, anche poco piacevoli. Anzi, sarà la peggiore, inimmaginabile. Da criminali. Non gradisce ciò che gli tocca fare, soprattutto organizzare i funerali e la cremazione senza commozione: se non lo avesse odiato completamente, non avrebbe voluto minimamente a che fare con quell’uomo. Il motivo? Non ci è dato di saperlo e, visto l’andamento della trama, neanche può contare più di tanto, perché quello che succede in quei pochi giorni è catastrofico e terrificante. Il padre non è quel brav’uomo dipinto dal suo amico intimo e “cosmico” Dominique (Yves Jacques), che continua a rimpiangerlo e a beatificarlo.
Sistemando gli abiti e gli averi della casa ereditata e pronta alla vendita, scopre una porta nascosta posta nella cantina che dà adito ad una camera segreta, dove scova una giovane ragazza tenuta prigioniera chissà da quanto. Facile immaginare lo spavento, l’urlo, la fuga, la chiusura veloce per non rendersi conto meglio e riflettere sul da farsi. Chiamare la polizia: come giustificare la scoperta a carico di un uomo appena deceduto? Liberarla: crollerebbe il mito di un uomo per bene con i vicini che lo stimavano e con l’amico fraterno che ha appena conosciuto. Guadagnare tempo: ha pochi giorni a disposizione e da Parigi chiamano in continuazione per sapere quando torna. Ellias - come si fa chiamare in Francia, ma a Montréal lo conoscono con il vero nome di Sébastian - è troppo spaventato, atterrito sul da farsi e non decide nulla, più che altro per il trauma del momento, ma la situazione precipita e commette l’errore involontario più grave che poteva capitargli.
L'erede (2024): Marc-André Grondin
Le vie d’uscita non erano tante ma così facendo si sono ristrette, ognuna porta a chissà quale conseguenza. Si sente in trappola mentre l’iter burocratico e funerario va avanti, il telefono squilla in continuazione dal lì e da Parigi, suonano alla porta. Il crollo arriva e non è quello del cuore ma della mente e della emotività, che uccide parimenti. Uccide da vivi, per mano d’altri o per propria. La carriera appena iniziata, la morte di un uomo ignorato anche dalla ex moglie che gli dice chiaramente che non le interessa nulla. Cosa ha fatto quest’uomo per essere stato allontanato da moglie e figlio? Ma soprattutto chi è quella prigioniera nel sotterraneo? A quale famiglia manca? No! A quella non è possibile! No! Ma chi era veramente suo padre? Perché ha usato tanta violenza? Ed ora, anche lui è dalla parte del torto e necessita una via non di uscita ma di fuga, magari di sparizione.
Sembrava un film serio, diventato poi drammatico, ma thriller criminale mai avremmo immaginato durante la visione, che si fa scomoda, spinosa, ansiogena. La posizione di Sebastian, mentre Ellias è sempre atteso in Europa, è peggiorata sino all’impensabile. Non sarà mai stato un uomo coraggioso e intraprendente, specialmente in una posizione come la sua protetta e sempre assistita dalla prima all’ultima ora del giorno ed ora deve uscirne, bene o male. O malissimo.
La trama è di per sé angosciante ma la bravura eccelsa dell’attore, un magnifico Marc-André Grondin (perché mai da noi è praticamente sconosciuto?), una sorta di Luca Zingaretti giovane, ne fa un capolavoro di recitazione, regalandoci ad ogni inquadratura (e Legrand gli fa tanti primi piani) una vasta gamma completa di impressioni intime che diventano espressioni per chi lo osserva, in un crescendo sconcertante che sfocia nel pianto dirompente durante la cerimonia commemorativa, che l’amico paterno Dominique ovviamente e umanamente scambia per commozione filiale, quando invece stava maturando di una decisione ancora più inquietante.
L'erede (2024): Marc-André Grondin, Yves Jacques
La perfetta, cronometrica, incisiva regia del magistrale Xavier Legrand non si limita a fotografare un semplice finale (tragico o meno) ma lo suddivide in due inquadrature: in una Dominique resta agghiacciato, nell’altra l’evento è fuori campo: lo dobbiamo intuire udendo un rumore sordo. Come succede nei migliori film, lo spettatore non ha né il tempo né il presentimento che il film sia finito e se cominciano a scorrere i titoli di coda sta ancora lì, senza parole e immobile. Seduto a chiedersi se c’era quella maledetta via d’uscita. Le colpe dei padri, si dice, cadono sui figli, e qui è una mannaia che piomba per rispettare la tradizione. Chi era veramente Jean-Jacques Barnès? Senza volerlo, Ellias ne ha ereditato “il male”, seppure in un solo atto e in un momento di grande concitazione e smarrimento di lucidità, ma anche lui non si è fermato a limitare i danni della incresciosa situazione. L’erede. Erede non solo materiale ma anche emotivo e morale, che porta il protagonista, incapace di gestire la difficoltà estrema, ad un gesto a cui prima non avrebbe mai pensato. Il mondo produttivo, intanto, non si ferma e la copertina della rivista esce regolarmente, ma solo col suo cognome.
Xavier Legrand ha realizzato un film impegnativo e incalzante, che non concede un solo minuto di pausa, dimostrando che ha imparato molto studiando Hitchcock e Haneke (quest’ultimo un vero Maestro nel narrare la malvagità umana) sia con i colpi di scena, sia nella misura dei dialoghi e dei gesti, a cominciare proprio dal protagonista, parco ad esteriorizzare i pensieri personali. Ed inoltre vi aggiunge con sagacia la gestione del lutto e l’ipocrisia della borghesia, sempre con essenzialità. E dire che si era partiti, con la prima sequenza, con una sfilata al ritmo incessante e sostenuto della musica, ma chiaro preludio di una caduta verticale: dalla cima della piramide su cui si stava insediando all’inferno delle ultime ore della trama. Un film patriarcale di uomini sugli uomini: qui le donne sono comparse o vittime. Quella che vive felice è l’ex moglie, che, infatti, se n’è scappata.
L'erede (2024): Marc-André Grondin
Non si può chiudere il discorso se non si dà il giusto merito a Marc-André Grondin, che è bravissimo in ogni scena ma quando crolla in un pianto sconsolato seduto nelle ultime file della sala funeraria sembra addirittura perdere il controllo, tanto si è lasciato andare, in un piano sequenza che ammutolisce lo spettatore. Questo attore è fantastico.
L'erede (2024): Marc-André Grondin
A chi interessa, esistono delle differenze con il libro di Alexandre Postel che fa da soggetto: lì il tono è da dramma psicologico sobrio e introspettivo; il protagonista è un uomo comune, un insegnante universitario; il padre è una figura distante e autoritaria, ma non criminale; il segreto familiare è piuttosto un trauma psicologico ed un senso di colpa; il finale è più riflessivo e aperto.
Resta il fatto che il film è bellissimo.
Voto 7,5
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