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La voglia matta di vivere

Regia di Ricky Tognazzi vedi scheda film

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La recensione su La voglia matta di vivere

di barabbovich
6 stelle

A cento anni dalla nascita, arriva puntuale come una cartella esattoriale l'ennesimo documentario elegiaco, come non se ne contano più nel nostro cinema. Stavolta il festeggiato è Ugo Tognazzi, moschettiere della commedia all'italiana, omaggiato dal primogenito Ricky, primo di quattro figli avuti da tre donne diverse (Maria Sole aveva già dato nel 2010 con Ugo Tognazzi. Ritratto di mio padre). In un'ora e venti che mira alla completezza, con la voce grave e paludata del figlio-regista, sfilano film, varietà e passioni private (i fornelli e le gonne a cui non riusciva a non correre dietro): dai set con Risi, Scola, Comencini, Ferreri, Monicelli fino al Villaggio Tognazzi di Torvajanica, tra tornei di tennis e "scolapasta d'oro". Il tutto condito da found footage, super8 di famiglia e testimonianze: dal tromboneggiare di Avati alle note sapide di Vanzina, passando per Barbareschi (da sopportare come si fa con un antipasto da dissenteria). Non mancano i cult (Amici miei, Il vizietto, Romanzo popolare, La tragedia di un uomo ridicolo che gli valse la sospirata Palma d'Oro), qualche chicca (il periodico satirico Il male, che lo fece passare per il capo delle Brigate Rosse) e il ricordo di un attore capace di spaziare dal varietà al cinema d'autore, al fianco di Mastroianni, Manfredi, Gassman, Sordi, Monica Vitti. Manca qualcosa? Sì: il giusto spazio all'innovazione linguistica di Ottavio detto Ugo, quella che sarebbe finita anche nel grande dizionario Treccani: la supercazzola inventata in occasione di Amici miei, destinata a diffondersi anche tra chi, quando Tognazzi morì (nel 1990), non erano nemmeno nei piani di mamma e papà. Perché in quella parola c'è l'essenza di Tognazzi, uno che la vita l'amava e la mordeva: tra un set, un frantoio e qualche "diritto alla cazzata" esercitato con orgoglio. Come fosse Antani.

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