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Unbreakable. Il predestinato

Regia di M. Night Shyamalan vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Unbreakable. Il predestinato

di CineNihilist
10 stelle

Un quarto di secolo di cinema. In ritardo. Ma meglio tardi che mai. Inizialmente questo progetto intitolato “un quarto di secolo di cinema” doveva dividersi in due articoli da pubblicare entro il 19 ottobre 2024. Il primo si sarebbe concentrato a raccontare l’origine della mia cinefilia e del mio rapporto col cinema nel corso degli anni (un quarto di secolo appunto); il secondo, invece, si sarebbe sviluppato con una lista di 26 film (uno per anno) dal 1998 al 2023, ovvero dal mio anno di nascita fino al compimento dei miei 25 anni. Purtroppo la vita è incidentata da fortunati e sfortunati incidenti/contrattempi/eventi, così il quarto di secolo si è tramutato in un ventiseiesimo e quest’anno diventerà un, ahimè, ventisettesimo. Ho deciso quindi di eliminare il titolo “un quarto di secolo di cinema” del primo articolo trasformandolo in “Cos’è il cinema?“, in modo da adeguarlo al tempo presente senza nessun riferimento ad un’età precisa (in questo modo lo potrò pubblicare quando voglio). Inoltre, ho deciso di cambiare la struttura da cronistoria alla “un quarto di secolo di serie tv” per asciugare il più possibile la struttura dell’articolo, in modo da arrivare subito alla sostanza dello scritto che sarà più una riflessione personale su che cosa significhi il Cinema per me con alcuni condimenti “cronachisti” del mio vissuto da cinefilo senza farli pesarli troppo. Insomma, i piani originali ho voluto mutarli per cercare di condensare al meglio ciò che voglio scrivere senza perdermi in un mare di logorrea che mi richiederebbe troppa energia tempo che non ho più voglia di spendere come un tempo.

 

Tuttavia, per il secondo articolo ho voluto mantenere invariata la sua struttura, quindi dopo questo preambolo vedrete in ordine sparso su filmtv 26 film che hanno segnato la mia cinefilia e la mia persona seguiti da un mio breve commento; quindi non per forza sono i migliori film dell’anno in cui sono usciti, ma indubbiamente sono stati i film che più mi hanno segnato dal 1998 ad oggi. Alcuni di questi film li avevo già recensiti qui sul sito, ergo metterò la dicitura "#UNQUARTODISECOLODICINEMA" per segnalare che fanno parte di questa rubrica e di seguito aggiornerò la vecchia recensione con dei miei nuovi pensieri partoriti per il mio quarto di secolo di cinema. Metterò quindi un collegamento ipertestuale sul "#" per ogni film in modo che si rimandi a questa prima "recensione" in cui presento la rubrica.

 

Bene, ora che ho finito questa doverosa premessa, diamo inizio alle danze col primo film!

 

#UNQUARTODISECOLODICINEMA  

 

La prima volta che sentii nominare il nome di Shyamalan fu in un video di uno youtuber italiano, Veoneladraal, che tradusse in lingua italiana un noto video di Nostalgia Critic nella quale distruggeva per filo e per segno la trasposizione cinematografica – diretta da Shyamalan – della serie animata Avatar The Last Airbender. Seguirono poi vari video parodici e denigratori nei confronti di Shyamalan a partire dalla pronuncia volutamente errata del suo nome, ovvero “sciamalaian”, un meme che poi scoprii essere molto diffuso presso coloro che si addentravano nel cinema del regista indoamericano. Per anni, quindi, M. Night Shyamalan lo associai unicamente alla figura di un regista incapace e pessimo che aveva rovinato la mia serie animata – e televisiva – preferita di sempre. L’aura negativa attorno a quel pover’uomo perdurò per tantissimi anni per via del mio nerdismo “avatariano”, infatti ebbi il coraggio di recuperare il live action di Shyamalan soltanto quando diventai cinefilo, sfatando finalmente il mio pregiudizio ignorante sul regista, che per anni mi aveva precluso di avvicinarmi alla sua filmografia. La cinefilia anche da questo punto di vista fu salvifica, infatti i miei orizzonti si ampliarono e mi innamorai del suo cinema nei suoi pregi e nei suoi difetti. Ovviamente il live action chiamato The Last Airbender – senza “Avatar” nel titolo per non fare confusione col film sci-fi di Cameron – rimane comunque una pellicola pessima sotto qualsiasi punto di vista, perché oltre ad essere un sacrilegio nei confronti della serie animata statunitense, è un fallimento cinematografico e drammaturgico sotto qualsiasi punto di vista, che infatti ha poi segnato simbolicamente la fine del genere fantasy al cinema. Di disastri comunque ne ha fatti il nostro caro Shyamalan – o “sciamalaian” per chi ama ancora percularlo perché hater del suo cinema – e la sua trentennale carriera è sicuramente costellata da alti e bassi, spesso legati alla natura radicale dei suoi film e dei suoi famosi colpi di scena finali che rimettono in discussione il senso stesso dei suoi lungometraggi. Proprio per questa sua natura “difettosa”, o semplicemente molto particolare e personale che richiede una certa sospensione dell’incredulità, ho sempre ammirato la voglia di Shyamalan ti stupire lo spettatore attraverso profonde riflessioni sulla natura umana, spesso mediante una fiaba o un thriller – o entrambi – che lo rende una curiosa versione ibrida tra Spielberg e Hitchcock (memorabili i suoi camei sempre “attivi” nei suoi film). Il “sense of wonder” shyamalaniano è dunque la sua più grande forza, che negli anni l’ha reso uno dei più importanti registi statunitensi contemporanei tra successi, flop e rinascite. 

 

Recentemente, però, un altro aspetto del regista che non avevo considerato mi ha colpito più del solito. Dopo aver visto finalmente il bistrattato Lady in the Water, sono rimasto affascinato dall’impianto teorico del film. La pellicola riflette, in modo molto interessante, sul concetto di fiaba, ed è curioso come tutti i personaggi rappresentino metanarrativamente gli archetipi della fiaba, che concorreranno poi a completare metacinematograficamente la storia del film. Lo stesso Shyamalan, infatti, non è più un semplice cameo “attivo”, ma un vero e proprio personaggio secondario che sarà, però, fondamentale per concludere il racconto (non a caso è uno scrittore). È come se Shyamalan fosse il demiurgo e al tempo stesso parte della sua creazione. Tutto ciò può innescare una divertente e interessante riflessione sulla sua essenza come regista e narratore, capace di varcare la soglia tra realtà e finzione. Da questo punto di vista, il misconosciuto Lady in the Water può considerarsi il manifesto più plateale della sua poetica, sempre attenta ad esplorare l’animo tormentato di uomini e donne comuni incapaci di vedere il proprio reale potenziale ma che attraverso la fede – in senso lato nonostante Shyamalan sia cattolico – riusciranno a riconnettersi con sé stessi e con il mondo circostante, superando finalmente i loro dilemmi o traumi. È un film dunque a tesi, in cui si riflette sull’umanità, sulla fede, sul fantastico, sul dolore esistenziale, sulla forza del racconto, sulla predestinazione; tutti elementi che ricorrono nella filmografia del regista di Philadelphia. La struttura filosofica e drammaturgica di tesi, antitesi e sintesi, che rispecchia molto quella del viaggio dell’eroe di Joseph Campbell, in Lady in the Water raggiunge la sua piena compiutezza, nella quale si può osservare con meraviglia le radici culturali della poetica shyamalaniana nella loro forma più pura. A seguito di questa visione sorprendente e folgorante, mi sono interrogato sul motivo per cui il regista avesse adottato un registro del genere, creando di fatto un unicum nella sua filmografia pur allineandosi perfettamente alla sua poetica. 

Con mia grande sorpresa, dopo aver rivisto Unbreakable per il quarto di secolo di cinema, ecco che questa struttura teorica a tesi ritorna in tutta la sua magnificenza. Rispetto a Lady in the WaterUnbreakable nel suo essere teorico è meno radicale sul lato metacinematografico e metanarrativo, anzi, quelle componenti non sono minimamente presenti se non a livello sottile in sede d’analisi del testo filmico. L’impianto più “meta” di tutta l’operazione cinematografica di Shyamalan scaturisce quindi dalle riflessioni sul film, soprattutto a posteriori a un quarto di secolo di distanza dalla sua uscita in sala, in cui ormai i cinecomic spadroneggiano ai botteghini nonostante la crisi cronica che li affligge. Analizzare Unbreakable oggi fa tutta la differenza, perché è come se l’opera fosse stata profetica su un intero genere, tant’è che ne codifica ed esplora la sua struttura portante tra mitopoiesi, fumetto, narrazione, drammaturgia e, infine, la sua filosofia alla base della cultura americana. La genialità di Shyamalan sta infatti nell’aver creato un film supereroistico senza un fumetto alla base, andando in controtendenza con i film che sarebbero sorti nello stesso anno, il 2000, e successivamente tra MCUDCEU SCU, decretando il dominio del cinefumetto nei successivi 25 anni. Unbreakable nasce infatti in una congiuntura storica molto particolare, ossia nell’anno zero della nascita del cinefumetto moderno con X-Men di Bryan Singer che, insieme allo Spider-Man di Sam Raimi – presente in questo quarto di secolo di cinema – daranno avvio alla Silver Age dei cinecomics, sdoganando finalmente il fumetto al cinema elevandolo a Settima Arte. Il regista di Philadelphia non poteva prevedere tutto ciò, eppure il suo amore per i comics supereroistici non gli hanno impedito di creare un’opera predittiva, avanguardistica e al tempo stesso antitetica al cinecomic stesso. 

 

Unbreakable ruota tutto attorno ad una tesi come Lady in the Water: si passa dall’assunto “le creature delle fiabe esistono veramente” a “i supereroi non sono finzione e vivono tra noi, nel mondo reale”. E ovviamente a questa tesi Shyamalan pone una naturale antitesi: “no, le creature delle fiabe non esistono, non possiamo credere a queste fandonie, come non esistono i supereroi nel mondo reale perché vivono soltanto all’interno dei fumetti”. Il fanciullo che è in Shyamalan – non a caso ha lavorato con un sacco di attori bambini e ha tre figlie – vuole invece andare contro il cinismo adulto e far avverare i sogni dei fanciulli attraverso la potenza espressiva della Settima Arte: una ninfa può uscire da una piscina condominiale come un uomo di mezza età depresso può rivelarsi essere “unbreakable” come Superman. Il “sense of wonder” fanciullesco di Shyamalan incontra però anche un contrappeso drammaturgico adulto e maturo sul tema procedendo in maniera antispettacolare e antiblockbusteriana. Gli effetti speciali si riducono all’osso per enfatizzare il travaglio interiore di queste persone comuni dotate di poteri speciali e lo scontro che hanno con una società che non li capisce, o che li cerca di comprendere. L’intero film è, infatti, una profondissima riflessione teorica sul genere supereroistico come forza mitopoietica all’interno della cultura americana, che trascende il medium del fumetto e del cinema. L’eroismo e il considerarsi “super” è connaturato nella società americana, che sin dalla sua nascita si è autoproclamata eroica per aver sconfitto un tirannico nemico d’oltremare potentissimo, fino ad aver domato un territorio vastissimo e vario attraverso padri pellegrini, cowboy, poliziotti e imprenditori che hanno reso grande la nazione americana. La centralità dell’individuo che deve essere “super” per sopravvivere al darwinismo naturale e sociale è dunque alla base del popolo statunitense, che ha poi creato il mito dei supereroi nel momento in cui gli USA dovevano risollevarsi dalla Grande Depressione. 

 

Non a caso David Dunn è afflitto da una profonda depressione, che lo rende un marito infelice, apatico e distaccato dalla sua stessa famiglia in quanto egli si sente un uomo ordinario, privato del suo sogno come giocatore professionista di football. Il racconto supereroistico di Shyamalan non è dunque la classica struttura in atti in cui c’è la genesi del supereroe e lo scontro con il villain, ma è lunghissimo primo atto composto da numerosi piani sequenza e inquadrature fisse atte ad esplorare la stasi del protagonista, che si rifiuta ostinatamente la chiamata dell’eroe. Il ritmo lento tipico alla Shyamalan è funzionale ad esplorare le più piccole azioni quotidiane di un uomo che nega sé stesso, la sua famiglia e un nuovo amico fissato coi fumetti, Mr Glass, che lo spinge ad abbracciare la sua straordinarietà. Unbreakable non è quindi un normale film di supereroi, ma è un film esistenzialista e meditativo che si interroga cosa voglia dire essere supereroi nel nostro mondo, e di come quest’ultimi si manifesterebbero una volta acquisita la loro presa di coscienza di essere “super”. In quest’ottica Unbreakable sembrerebbe essere agli antipodi col genere supereroistico, ovvero un cinecomic fittizio che rinnega la spettacolarità del genere per abbracciare una pura introspezione dialettica e filosofica da film d’autore. Eppure, nella sua raffinatezza ed eleganza nel trattare in maniera alta e artistica il fumetto, la cosiddetta nona arte, la pellicola abbraccia anche l’anima più viscerale e terrena del cinefumetto moderno: la mitica scena in mezzo alla folla alla stazione di Philadelphia in cui Unbreakable abbraccia finalmente i suoi superpoteri, l’unica scena “action” in cui David Dunn salva la famiglia dal serial killer, Mr Glass che svela il suo piano mastermind nel finale e, infine, il figlio che lacrima quando scopre che suo padre è davvero un supereroe. L’epifania supereroistica la si respira in ogni inquadratura nonostante la veste da dramma familiare e thriller psicologico della pellicola, che si fa metaforicamente da apripista di un intero filone che dal 2000 in poi sarebbe esploso fino ad oggi, in cui ormai il genere non ha più nulla da dire. Un quarto di secolo fa, invece, Shyamalan teorizzava il cinecomic moderno ancor prima dei vari SingerRaimiNolanGunnReeves, creando di fatto un’opera avanguardistica per i suoi tempi, quando ancora la Settima Arte si vergognava del fumetto, salvo poi ricredersi nei decenni successivi. 

 

Quello che alla prima visione mi sembrava un magnifico film supereroistico alla Shyamalan, che avrebbe poi espanso la sua mitologia con Split Glass, oggi è invece un capolavoro senza tempo che surclassa tutti i cinecomics e i film a tema supereroi usciti fino ad ora, perché incarna tutto ciò che un film supereroistico – e non – dovrebbe essere: una solida regia, un’ottima sceneggiatura, un’estetica unica, una colonna sonora iconica (James Newton Howard è sottovalutatissimo e in questo film è Dio) e, insomma, un grande spettacolo emotivo che faccia anche un minimo riflettere sul nostro di eroismo e le mille sfaccettature dell’animo umano. Shyamalan sperimenta, codifica e reinventa tra strafalcioni e lampi di genio, e quando partorisce l’opera audiovisiva filosofica per eccellenza sul supereroismo, non posso far altro che applaudire commosso, estasiato e felice di andare in sala a pagare un biglietto per vedere un suo film, sperando come sempre che ritorni ai massimi livelli di UnbreakableThe Village e Split. Ma se anche dovesse regalarmi un Trap…AVERCENE!         

 

 

 

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