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Memento

Regia di Christopher Nolan vedi scheda film

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La recensione su Memento

di Letiv88
8 stelle

Colpisce, pur con qualche rigidità. È un film che coinvolge grazie a come ti trascina nel suo labirinto mentale e nella prospettiva instabile del protagonista. Non è perfetto, ma resta solido, incisivo, e soprattutto capace di mettere davvero alla prova chi guarda.

Memento (2000) è il film con cui Christopher Nolan si è imposto come uno dei registi più ossessionati dal tempo, dalla percezione e dal modo in cui la nostra mente manipola la realtà. È un’opera che pretende attenzione totale, perché nasce come un puzzle: più provi a metterlo in fila, più scopri che ogni pezzo ti sfugge. Ed è proprio questo il suo fascino. Non siamo davanti al Nolan dei budget miliardari: qui è ancora “ruvido”, affamato, concentrato sulla struttura narrativa come motore del film. La sua fama è meritata, anche se non tutto funziona in modo impeccabile. Ma quando un film riesce a coinvolgere così profondamente lo spettatore nella mente del protagonista, a fargli vivere lo stesso smarrimento e lo stesso bisogno di ricostruire il senso di ciò che vede, allora significa che ha colpito nel segno. Per molti è il cult più rappresentativo del regista. Per me, è sicuramente quello che lo racconta meglio come autore.

Leonard Shelby (Guy Pearce) è un ex investigatore assicurativo che vive con un serio disturbo della memoria: dopo un grave trauma cranico non riesce più a creare nuovi ricordi. Ogni incontro, ogni informazione, ogni conversazione svanisce dopo pochi minuti, costringendolo a ricostruire continuamente la propria realtà attraverso polaroid, appunti essenziali e tatuaggi incisi sulla pelle, che usa come punti fermi per orientarsi. Il suo unico obiettivo è trovare l’uomo che ha aggredito lui e sua moglie, causandole la morte e lasciandolo in questo stato permanente.

Durante la sua ricerca incontra Natalie (Carrie-Anne Moss), una donna dal passato complicato che sembra volerlo aiutare pur mantenendo una zona d’ombra sulle sue reali intenzioni, e Teddy (Joe Pantoliano), un uomo loquace, invadente e difficilmente catalogabile, che afferma di essere dalla sua parte ma che appare sempre un passo avanti a lui. Leonard si muove in un mondo dove nulla rimane stabile. Ogni persona che incrocia sembra sapere più di lui, ogni informazione potrebbe essere vera o falsa, e perfino ciò che lui stesso si è scritto addosso potrebbe essere stato interpretato male. La sua indagine prosegue così in un territorio incerto, spinto da un ricordo — quello della moglie — che è l’unica cosa che non perde mai e che continua a guidarlo con una forza che supera la logica.

Nolan qui lavora su un’idea radicale: la struttura non è un supporto alla storia, è la storia. È un approccio che lo avvicina solo in apparenza a un certo cinema classico, perché l’influenza da cui parte – quella di Rapina a mano armata (1956) di Stanley Kubrick – viene trasformata fino a diventare qualcos’altro. Kubrick usava la narrazione a incastro per tornare sugli stessi eventi da più punti di vista; Nolan riprende quel principio e lo porta all’estremo, smontando completamente la linearità per costruire un linguaggio mentale, quasi un modo di percepire prima ancora che di raccontare.

La regia non cerca mai di mettersi davanti al film: Nolan mantiene uno stile pulito e controllato, lasciando che sia la percezione di Leonard a modellare lo spazio e il ritmo delle scene. Le inquadrature strette sul suo volto, l’uso insistito della polaroid come oggetto narrativo, la scelta di far pesare i silenzi e di spezzare la continuità visiva contribuiscono a restituire un mondo fatto di frammenti, di momenti che non riescono mai a legarsi del tutto. È come se lo spettatore fosse costretto a vedere e sentire le cose con la stessa discontinuità del protagonista.

In questo impianto diventa impossibile ignorare il ruolo del montaggio, realizzato da Dody Dorn, che lavorò gomito a gomito con Nolan per dare forma concreta all’idea di una narrazione inversa e frammentata. Ogni salto temporale, ogni scena che si incastra al contrario, ogni frattura pensata per replicare l’instabilità della mente di Leonard nasce dal dialogo tra la visione del regista e la precisione della montatrice. È una collaborazione che incide sull’identità stessa del film e che venne valorizzata dall’Academy con la nomination all’Oscar per il Miglior Montaggio, un segnale chiaro di quanto la costruzione temporale fosse riconosciuta come parte fondamentale del suo linguaggio registico. Rivisto oggi, colpisce quanto Nolan fosse già consapevole dei suoi strumenti: ritmo rigidamente controllato, costante senso di disorientamento, idee visive nette. Qualche scelta risulta ancora acerba, figlia di un autore giovane che spinge forte sul proprio stile, ma è proprio questa energia a dare al film una voce precisa e riconoscibile.

Scritta da Christopher Nolan a partire da un racconto del fratello Jonathan Nolan (Memento Mori), la sceneggiatura è il vero cuore del film. Gli incastri temporali non sono un gioco fine a sé stesso: servono a replicare la condizione di Leonard e a mettere lo spettatore nella sua stessa prigione mentale. È un modo di raccontare che gioca apertamente con l’identità, con la fiducia nello sguardo, con la fragilità dei ricordi.

Non mancano punti un po’ forzati, soprattutto nei dialoghi e in un paio di snodi narrativi costruiti più per far funzionare il meccanismo che per naturalezza psicologica. Ma il film regge perché il tema della memoria viene trattato con una profondità sorprendente: i ricordi non sono strumenti di verità, sono strumenti di sopravvivenza. È proprio questa forza concettuale, tradotta in un meccanismo narrativo così efficace, ad aver portato la sceneggiatura alla nomination all’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Originale, un riconoscimento meritato per un’idea che all’epoca appariva radicale e rischiosa.

Guy Pearce offre una delle interpretazioni più particolari della sua carriera. Nolan lo scelse proprio per la sua capacità di apparire allo stesso tempo fermo e vulnerabile: Pearce costruisce un Leonard controllato nei gesti ma costantemente attraversato da un senso di vuoto, e rende credibile una condizione mentale che rischiava di diventare una caricatura. Lavora soprattutto di sottrazione, evitando qualsiasi eccesso emotivo, e questo mantiene il personaggio ancorato a una realtà fragile ma autentica.

Carrie-Anne Moss, reduce dal successo di Matrix (1999), sfrutta qui tutto il suo carisma per creare un personaggio ambiguo senza mai forzare la mano. Il suo contributo è importante perché Natalie non è pensata come una semplice spalla: è una figura che si muove su più livelli, emotivi e narrativi, e Moss riesce a dare corpo a questa ambivalenza con piccoli cambi di tono e una presenza sempre calcolata. Joe Pantoliano, che Nolan volle proprio per la sua attitudine a interpretare personaggi imprevedibili, porta in scena un Teddy scivoloso, simpatico e inquietante allo stesso tempo. È il volto perfetto per un uomo che potrebbe essere sia un alleato sia una minaccia, e gioca questa doppiezza con naturalezza, senza trasformarla in un artificio.

Il trio funziona perché ognuno lavora su un livello diverso della storia: Pearce incarna la soggettività fratturata, Moss la zona grigia delle relazioni, Pantoliano l’incertezza morale. È un cast costruito per sostenere la struttura del film e non solo per popolare la trama.

Le fondamenta del film nascono da un lavoro di documentazione reale: Nolan consultò esperti di disturbi della memoria per dare solidità alla condizione di Leonard, così da costruire una storia che non sembrasse mai “fantastica”, ma ancorata a un disturbo concreto. Le scene in bianco e nero appartengono a una linea narrativa distinta, più ordinata e lineare, in cui Leonard parla al telefono dalla stanza di motel con un tono quasi da resoconto; quelle a colori, invece, seguono il suo presente instabile e frammentato, dove ogni informazione rischia di sgretolarsi subito. Le due linee scorrono in parallelo e si incontrano solo alla fine, mostrando quanto Nolan abbia trasformato la mente del protagonista in struttura narrativa, senza mai separare forma e contenuto.

La versione europea in DVD e Blu-ray include anche un montaggio completamente cronologico, un esperimento che rende evidente quanto il film perda impatto quando viene ricomposto in maniera lineare: la storia resta comprensibile, certo, ma si svuota di quella tensione mentale che nasce proprio dal suo procedere a incastri. Ed è da questa costruzione che emerge il tema centrale: la memoria non come archivio fedele, ma come gesto selettivo, come racconto che serve a reggere il peso di ciò che si è vissuto. Leonard non cerca solo un colpevole, cerca un modo per dare forma al proprio vuoto. È una riflessione che Nolan svilupperà anche in Inception (2010)Interstellar (2014) e Dunkirk (2017), ma che qui è più diretta e crudele, perché non c’è nulla che attenui la fragilità del protagonista. Il successo del film contribuì anche a spostare lo sguardo dell’industria verso narrazioni non convenzionali, e Memento venne spesso accostato a opere come (500) giorni insieme (2009)The Butterfly Effect (2004) e Se mi lasci ti cancello (2004) per il modo in cui il cinema degli anni ’00 iniziò a trattare memoria e percezione come vero terreno drammatico.

Memento è un film che chiede impegno e restituisce molto. Richiede attenzione, disponibilità a lasciarsi confondere, voglia di ricomporre un disegno che si rivela solo alla fine. Non è perfetto: alcune scelte narrative sono un po’ rigide, qualche dialogo è artificioso. Ma è un’opera che colpisce, che resta, che mostra il talento di Nolan nella sua forma più pura. È uno di quei film che migliorano pensando agli strati sotto la superficie, più che riguardandoli in modo lineare. Ed è probabilmente il titolo che meglio sintetizza il regista: ossessioni, struttura, identità, tempo.

Memento (2000): Trailer italiano

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