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L'estate di Kikujiro

Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film

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La recensione su L'estate di Kikujiro

di ilcausticocinefilo
10 stelle

 

 

 

Il grande Kitano vira e, dopo inarrivabili perle quali Sonatine e Hana-Bi, decide di concentrarsi sull’infanzia, riuscendo – manco a dirlo – a regalare un altro capolavoro.

 

L’estate di Kikujiro è dotato di una prodigiosa capacità di bilanciare e armonizzare le più diverse trovate, i più svariati toni, le più disparate emozioni, i più vari significati in un insieme che schiva abilmente ad ogni nuovo giro il sentimentalismo zuccheroso, nella miglior tradizione del suo regista.

 

 

 

Se un minuto prima riesce a far piangere dalle risate, il minuto dopo rischia seriamente di far piangere per davvero, senza tuttavia mai apparire ricattatorio e melenso. Tante le gag da ricordare e molti i momenti in cui scatta inesorabile la commozione. Ad esempio, meravigliosamente sottotono eppure capace di smuovere nel profondo la scena fronte strada con la madre vista da lontano e quel quasi impercettibile cambio di sguardo di Kitano che dice più di mille parole. Esilaranti tutte le parentesi nella piscina o alla fermata abbandonata dell’autobus.

 

L’estate di Masao è l’estate dell’infanzia che comincia a dover fare i conti con le ingiustizie e le meschinità del mondo degli adulti. L’estate della felicità ma anche dei dolori. L’estate degli incontri inaspettati. Da notare come tutti i personaggi almeno in parte positivi o comunque più influenti sulla narrazione (e spesso più umani) siano dei sostanziali reietti per i canoni della buona società giapponese: dal Kikujiro di Kitano (che rivela un tipico tatuaggio da yakuza) ai quei due motociclisti sui generis con angioletto portafortuna attaccato al manubrio per finire sul libraio itinerante.

 

E forse proprio per questo loro essere outcast riescono a comprendere meglio il piccolo protagonista, che si sente solo, un tantino emarginato e sperimenta per la prima volta la sofferenza che deriva dal tradimento degli affetti più cari.

 

 

Il personaggio interpretato da Kitano, peraltro, è lui stesso infantile e quindi s’identifica presto – dopo un iniziale distacco – nel piccolo Masao, anche probabilmente per via delle proprie vicissitudini (come si palesa nella visita alla casa di riposo) e, dopo la scoperta circa la madre del ragazzino, cercherà in tutti i modi di risollevargli il morale, reclutando all’uopo proprio i motociclisti e il libraio.

 

Si va a comporre un «elogio dell’infanzia senza illusioni né languori nostalgici: ma al tempo stesso una celebrazione del lato ludico della vita in puro stile Dada-zen, quale già emergeva in film come Sonatine» (Mereghetti). Per questo, la narrazione non teme neppure di inserire momenti assurdi e surreali (come l’angioletto o gli incubi del bambino) che però – grazie alla mano del regista – non arrivano mai ad apparire trash o kitsch, tutt’altro.

 

L’andamento sospeso tra dramma e gioiosa vitalità, tra picaresco e tragico – che rimanda anche al Chaplin del Monello – è stupendamente supportato poi da un’altra magnifica colonna sonora firmata dal solito Hisaishi, che con quel suo incedere tra l’allegro e il malinconico sottolinea alla perfezione le atmosfere e le emozioni prevalenti dell’opera. Un memorabile pezzo di musica che sostiene e sorregge il film, riuscendo sempre a caricare di ulteriori significati e sentimenti ogni sequenza. E che – oltre al tema principale reiterato, Summer – regala anche la splendida, delicata e nostalgica The Rain.

 

 

 

Insomma, L’estate di Kikujiro è un’ennesima prova delle qualità del regista, in grado come pochi altri – e lo si era già capito almeno dai tempi del grandioso Il silenzio sul mare – di suscitare riflessioni e rievocare emozioni profonde con apparente placidità, scansando le trappole del sentimentalismo per giungere al cuore, al vero sentimento, evitando accuratamente il ricorso ai noti trucchetti stilistico-narrativi per invocare a comando la lacrimuccia.

 

Questo suo 8° film è uno dei più belli sull’infanzia e al contempo sulla dimensione catartica del gioco e dell’incontro. Una di quelle opere che portano a pensare – con giusto un poco di enfasi – che il mondo sarebbe un posto più triste se non esistessero. Un film che, una volta visto, rimane per sempre nella memoria dello spettatore. E per fortuna.

 

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