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Festa del Cinema di Roma 2015: le recensioni
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Festa del Cinema di Roma 2015: le recensioni

Terminata la 10° Festa del Cinema di Roma, e quindi anche la parallela 13° edizione di Alice nella Città, estendo questa playlist riepilogativa a beneficio di chi volesse farsi un'idea generale delle opere ivi proiettate ma non avesse la voglia o il tempo di andarsi a cercare i titoli uno per uno.
Qui sotto, trovate riproposte tutte le recensioni da me inserite nel corso della manifestazione, ordinate in base al mio gradimento dei singoli film e con indicata, per ciascuno, la sezione specifica in cui è stato presentato.

Playlist film

The Whispering Star

  • Fantascienza
  • Giappone
  • durata 100'

Titolo originale Hiso Hiso Boshi

Regia di Shion Sono

Con Megumi Kagurazaka

The Whispering Star

In streaming su CG Collection Amazon channel

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2015 - SELEZIONE UFFICIALE

 

Yoko Suzuki è un'androide del servizio consegne spaziali, e il suo compito è recapitare pacchi agli umani, razza in via di estinzione sparsa in piccoli insediamenti qua e là per l'universo. Viaggia tra i sistemi planetari a bordo della Rental Spaceship Z, una navetta che sembra un bungalow giapponese, viaggi che durano anni, anni che non le pesano, perché quel che conta è avere con sé le pile cariche, per cambiarsi di tanto in tanto quelle che la alimentano. Dopo aver effettuato consegne presso i pianeti Tam, Urz e Parass Zero, è diretta verso Whispering Star, quello con la maggior concentrazione di umani, ma dove non è consentito produrre rumori che vadano oltre i 30 decibel senza che questi, ormai strutturalmente deboli, non rischino di morire.

Per inaugurare la sua neonata casa di produzione cinematografica, la Sion Production, Sion Sono ha scelto un'opera personale e sentita, perché concepita nel 1990 e da allora lungamente covata. Girato in bianco e nero nelle zone terremotate di Fukushima, con abitanti locali chiamati a recitare la parte di sé stessi, The Whispering Star è un gioiello di fantascienza apocalittica low budget, un film profondamente malinconico, dove gli ultimi esemplari di un'umanità arresa fanno ciò che di più utile gli è rimasto da fare, ovvero cercare di conservarsi, partendo dai ricordi, dai cimeli, dai dettagli insignificanti che si sono persi mentre venivano perse ben altre battaglie intraprese con arroganza contro la natura.
Nei pacchi che Yoko porta in giro per i pianeti c'è di tutto, dai denti alle lattine, dai negativi ai cappelli: ricordi che per piccoli che siano raggiungono un valore tale da giustificare un'attesa di anni; ricordi che accumulandosi divengono memoria anche per l'androide che li porta a spasso, tanto da arrivare a sentirli sussurrare. Lontano dallo stile frenetico e dalle tematiche violente tipiche del proprio cinema, Sono gira un film intimo e meditabondo, poetico e non privo di ironia, in cui tutto dà il senso dell'inesorabilità dello scorrere del tempo.

Voto ****

Rilevanza: 5. Per te? No

Lo chiamavano Jeeg Robot

  • Commedia
  • Italia
  • durata 112'

Regia di Gabriele Mainetti

Con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei

Lo chiamavano Jeeg Robot

In streaming su Infinity Selection Amazon Channel

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2015 - SELEZIONE UFFICIALE

 

Enzo Ceccotti non ha amici. Lo ripete come un mantra, come fosse un punto d'orgoglio.
Enzo Ceccotti non ha donne, ma una mole impressionante di film porno.
Enzo Ceccotti è abitudinario: ruba, passa all'incasso, riempie il frigo di budino, e campa.
Ma un indesiderato tuffo nel biondo Tevere, seguito dall'impatto con un bidone ripieno di chissà cosa, arriva ad interrompere per sempre la sua monotona routine da ladruncolo solitario: uscito dall'acqua immutato nell'aspetto, scopre di lì a poco, con sgomento, di esser diventato immune alle pallottole e ai voli dal nono piano, e soprattutto dotato di una forza sovrumana. Accolto l'inspiegabile incidente come una benedizione, inizia ad applicarlo 'sul lavoro' con risultati eclatanti, guadagnandosi però l'invidia dello 'Zingaro', un piccolo boss locale megalomane e violento. Nel frattempo, si ritrova corteggiato da Alessia, la figlia del vicino di casa appena morto, una ragazza dolce ma sciroccata, che dopo la perdita della madre è andata fuori di testa convincendosi di vivere nel mondo di Jeeg robot d'acciaio: e che, dopo aver visto esibita la sua forza bruta, riconosce in lui proprio Hiroshi Shiba.

Ebbene, anche l'Italia ha un film superoistico con tutti i crismi. Lo chiamavano Jeeg Robot è l'esordio sulla lunga distanza di Gabriele Mainetti, che già si era fatto notare per una manciata di cortometraggi che trasudavano il suo amore per il genere e trasmettevano il suo senso dell'umorismo macabro: caratteristiche che si ritrovano qui, accompagnate da una storia ben congegnata e personaggi definiti con cura e recitati da un cast complice e divertito, con un ottimo Claudio Santamaria nel ruolo di Enzo/Hiroshi, ingrassato venti chili per dar peso alla potenza del suo supereroe, ed un impressionante Luca Marinelli a donare il suo sguardo spiritato ad un antagonista cattivissimo e pazzo, capace di spaccare la testa di un uomo a colpi di iPhone e poco dopo agghindarsi con lustrini e paillettes per salire su un palco e cantare Anna Oxa.

Citazionista e pieno zeppo di episodi esilaranti (una su tutte la scena del dito mozzato), Lo chiamavano Jeeg Robot scorre a un ritmo travolgente, percorrendo lunghi tratti consapevolmente sopra le righe proprio per favorire la sospensione dell'incredulità, mescolando il mescolabile e passando con assoluta naturalezza dall'azione alla fantascienza, alla commedia nera in salsa splatter, senza dimenticare qualche spruzzata di romanticismo.
Romano fino al midollo, per l'inflessione pesantemente dialettale esibita dagli attori e per il ruolo da protagonista che la città stessa assume, una città cupa e sporca esposta nel degrado della periferia, Lo chiamavano Jeeg Robot non si chiude nel particolarismo o nella macchietta, ma mostra il respiro ampio di un cinema sanguigno e strutturato, e ha tutte le carte in regola per sfondare, e sul serio, a livello nazionale.

Voto ****

Rilevanza: 6. Per te? No

The Wolfpack

  • Documentario
  • USA
  • durata 84'

Titolo originale The Wolfpack

Regia di Crystal Moselle

Con Bhagavan Angulo, Govinda Angulo, Jagadisa Angulo, Narayana Angulo, Krsna Angulo

The Wolfpack

In streaming su Amazon Prime Video

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ALICE NELLA CITTÀ 2015 - PANORAMA

 

Figli di un peruviano affascinato dalla cultura Hare Krishna e di una ex hippie originaria del Michigan, gli Angulo sono sei fratelli nati tutti nel corso degli anni '90 e vissuti, fino al 2010, reclusi con la sorella mentalmente disagiata nell'appartamento di famiglia nella Lower East Side di Manhattan. Senza uscire mai d'inverno e facendolo molto di rado, e rigorosamente sotto scorta, d'estate (da nessuna a nove volte complessive a stagione, a seconda dell'annata), hanno imparato a conoscere il mondo, oltre che guardandolo dalla finestra, studiando alla tv i grandi classici ed i cult di genere di cui il padre comprava dvd a iosa. Spaventato dal disagio e dalla violenza visti in giro per le strade, il padre aveva proibito loro di uscire da soli, preferendo altresì all'istruzione scolastica - che li avrebbe 'contaminati' - gli insegnamenti casalinghi della madre, succube educatrice, da integrare con la trasmissione delle proprie passioni: religione, musica e cinema. E se la prima è testimoniata perlopiù solamente dai loro stessi nomi, tutti riconducibili alla figura di Dio (da Visnhu - quello dell'unica femmina, a Bhagavan, da Govinda a Narayana, da Mukunda a Krsna, fino a Jagadisa), la seconda e la terza si vedono realizzate attraverso quello che ne è divenuto nel tempo l'hobby preferito, ovvero la riproposizione recitata di brani musicali e soprattutto di scene intere di film, con tanto di costumi, sceneggiature originali e telecamere.

In un contesto familiare tanto bizzarro quanto inquietante, il cinema, prima di tutto, diviene per questi ragazzi la fonte primaria di conoscenza, il catalizzatore di ogni emozione e l'unità di misura a cui rapportare le proprie scelte. Tanto che, il giorno in cui uno dei sei, finalmente, decide di rompere le righe ed irrompere autonomamente nel pianeta Terra contravvenendo al dettame paterno, lo fa fuggendo di casa con sul volto la maschera di Michael Myers (ovvero il 'cattivo' di Halloween), convinto che la stessa possa renderlo inattaccabile e temuto: è il gennaio del 2010, ed anche l'inizio della fine della dittatura di papà. Di lì a poco, infatti, la voglia di uscire e ribellarsi a quelle assurde imposizioni si fa largo anche negli altri cinque, mentre fremiti di un orgoglio da troppo tempo sopito prendono via via il sopravvento anche nella madre.

Il primo incontro tra la giovane regista Crystal Moselle e i sei fratelli Angulo arriva proprio qualche mese più tardi, e coincide con la loro prima uscita di gruppo, quando prendono a scorrazzare per le strade di Manhattan vestiti come i protagonisti di Reservoir Dogs di Quentin Tarantino, con tanto di pistole di cartone (da loro stesi costruite) al seguito. A quell'incontro, casuale, seguono cinque anni di riprese utili a documentare i loro primi approcci con il mondo esterno, a seguire il loro graduale percorso di emancipazione, a testimoniare la loro avidità di conoscenza, la loro curiosità ed il loro entusiasmo, il loro bisogno di mettersi in gioco, di costruire, di vivere. E tra le pieghe di una regia tanto leggera da apparire invisibile, emerge con forza il legame empatico che ha permesso da subito a Moselle di mettersi totalmente al servizio di una storia assurda e sorprendente astenendosi dall'emettere giudizi lapidari, anzi cercando di cogliere il lato umano (ed in quanto tale fallibile) di ogni gesto, e puntando ad una salomonica comprensione laddove risulta ostica la condivisione.
Già vincitore del premio della giuria al Sundance 2015, The Wolfpack è stato presentato alla decima Festa del Cinema di Roma all'interno della sezione Alice nella Città, nella sottosezione Panorama.
Voto ****

Rilevanza: 4. Per te? No

Land of Mine - Sotto la sabbia

  • Guerra
  • Danimarca, Germania
  • durata 100'

Titolo originale Under Sandet

Regia di Martin Zandvliet

Con Roland Møller, Mikkel Boe Følsgaard, Laura Bro, Louis Hofmann, Joel Basman

Land of Mine - Sotto la sabbia

In streaming su Amazon Video

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2015 - SELEZIONE UFFICIALE

 

Nel corso della seconda guerra mondiale, le coste occidentali della Danimarca occupata furono disseminate di mine antiuomo dalla Germania nazista, come parte integrante di un più ampio sistema di difesa che intendeva prevenire eventuali sbarchi alleati. Nel maggio 1945, immediatamente dopo la fine del conflitto, oltre duemila soldati tedeschi divenuti prigionieri furono deportati e costretti a ripulire le spiagge danesi da circa due milioni di mine, per un lavoro che durò cinque mesi e costò la morte o il ferimento grave alla maggior parte di loro: si trattava per lo più di membri del cosidetto Volkssturm, ovvero l'ultima milizia fatta reclutare da Hitler raschiando il fondo del barile, composta da uomini fino ai sessant'anni, e soprattutto giovani dai tredici anni in su, perlopiù privi di esperienza nel disinnescare esplosivi.

Land of Mine (affascinante titolo internazionale dalla doppia valenza: "Terra mia" o "Terreno minato"; ma diverso da quello originale: Under sandet, ovvero "Sotto la sabbia") si prende la briga di informare il mondo su questa storia fino ad oggi sconosciuta ai più, e da sempre taciuta dalle autorità danesi in quanto configurabile come violazione della Convenzione di Ginevra del 1929, che vietava di imporre ai prigionieri di guerra lavori forzati o pericolosi. Il regista e sceneggiatore Martin Zandvliet si guarda però bene dal formulare giudizi, limitandosi ad esporre gli eventi ed ingenerare almeno un paio di domande di carattere etico: è giusto obbligare dei ragazzi a pagare dazio per i crimini di un'intera nazione? è possibile empatizzare con persone che rappresentano un regime feroce come quello nazista?

Ponendo particolare cura nella definizione dei personaggi, Zandvliet assume il punto di vista di un sergente danese al comando di un gruppo di quattordici giovani prigionieri tedeschi chiamati a scavare nella sabbia, trovare le mine, aprile ed estrarne il 'cuore', e ne segue il percorso che, dall'iniziale approccio autoritario e carico di odio, giunge prima all'apertura al dialogo e poi a progressive confidenze, mentre dentro imperversa il conflitto tra brama di vendetta e anelito di perdono.
Il tormento interiore del protagonista si innesca non appena i ragazzi iniziano a morire o restar mutilati da qualche detonamento, e cresce e si alimenta man mano che fa la conoscenza dei loro animi scuri e impauriti, o dei loro sogni minimi ma irrealizzabili, in un film la cui tensione cupa stride con l'oggettiva bellezza dell'ambientazione (che è poi il campo Oksbøl, dove veramente si svolsero i fatti), dando l'effetto di un incubo ambientato in paradiso.
Oltre che di una regia ed una fotografia efficaci (ques'ultima di Camillla Hjelm Knudesn), Land of Mine consta della prova stratificata di Ronald Møller, attore in ascesa qui al primo ruolo da protagonista, sempre convincente nell'accompagnare le evoluzioni dello stato d'animo del suo sergente.

Voto ****

Rilevanza: 3. Per te? No

The Confessions of Thomas Quick

  • Documentario
  • Gran Bretagna
  • durata 95'

Titolo originale The Confessions of Thomas Quick

Regia di Brian Hill

Con Mimmi Kandler

The Confessions of Thomas Quick

FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2015 - SELEZIONE UFFICIALE

 

È pacifico che nello scrivere su un film si debba fare attenzione a non fornire informazioni troppo dettagliate sulla storia ivi narrata, per evitare di dare al lettore anticipazioni troppo specifiche sul finale e rovinargli il piacere della visione. Il genere documentaristico esula parzialmente, di solito, da questa regola aurea, trattandosi di norma di resoconti cronachistici di avvenimenti nei quali è perlopiù noto sia il punto di partenza che quello di arrivo: a far la differenza, in determinati casi, è il metodo con cui l'argomento è approcciato, o il percorso scelto dal regista per supportare la propria tesi o per svelare i passaggi intermedi che hanno costituito lo sviluppo della storia.
The Confessions of Thomas Quick, di Brian Hill, ne è un caso esemplare.
Ad esser narrata è la storia incredibile di Sture Bergwall, che scelse lo pseudonimo di Thomas Quick (Thomas "il rapido") per confessare uno via l'altro, dal 1993 in poi, gli omicidi, conditi da stupri e mutilazioni, di 39 persone dichiarate scomparse nel corso degli anni, finendo condannato per otto di questi e guadagnandosi la fama di più grande serial killer della storia della Svezia. Salvo, nel 2001, ritrattare affermando di essersi inventato tutto di volta in volta, mettendo a nudo l'artificiosità dell'impianto (auto)accusatorio ma soprattutto la superficialità delle teorie psichiatriche portate avanti dalla clinica Säter, presso la quale era in cura dal 1991 per dei disturbi psichici e che grazie al suo caso ottenne riconoscimenti e fama.

Hill struttura narrativamente la prima parte del proprio film come una sorta di slasher teorico, passando in rassegna i diversi omicidi e soffermandosi su particolari truculenti e disgustosi, in un susseguirsi di descrizioni agghiaccianti che fanno venir voglia di alzarsi dalla sedia gridando «basta!». Restar seduti invece serve, perché quella che di primo acchito può passare come un'attenzione morbosa e gratuita a dettagli sui quali il buon gusto consiglierebbe di soprassedere, trova il suo senso quando nella seconda parte il registro cambia e, con gusto del paradosso e punte di nerissimo umorismo, viene svelata l'inaudita verità e messo in chiaro quale meccanismo deviato avesse portato alla creazione del mostro.
Proprio la scelta di questo tipo di struttura, permette a Brian Hill di fare del proprio film non solo un documentario di sorprendente impatto emotivo su un caso giudiziario eclatante fondato sul nulla, ma anche un esempio circostanziato di come, talvolta, per manipolare la verità ed ingannare la giustizia bastino un poco di sana follia, megalomania, o desiderio di notorietà.
Unica nota negativa per un film assolutamente da vedere, è la scelta antidocumentaristica di inserire, tra foto, registrazioni d'epoca e interviste reali, ricostruzioni filmate di singole scene recitate da attori professionisti: un espediente evitabile che cozza con la scientificità del resto ma in fin dei conti, e per fortuna, non incide più di tanto sul risultato finale.

Voto ***½

Rilevanza: 2. Per te? No

Iqbal, bambini senza paura

  • Animazione
  • Italia, Francia, Canada
  • durata 90'

Regia di Michel Fuzellier, Babak Payami

Iqbal, bambini senza paura

ALICE NELLA CITTÀ 2015 - FUORI CONCORSO

 

Il libro La storia di Iqbal di Francesco D'Adamo racconta la breve vita del pakistano Iqdal Masih, che a cinque anni, per un debito di pochi dollari, fu venduto dalla famiglia ad un mercante di tappeti che lo utilizzò come operaio, e a dodici fu ammazzato, dopo esser riuscito a fuggire, denunciare la condizione sua e e di tanti altri coetanei, e diventare attivista per la difesa dei diritti dei bambini. A venti anni dalla sua morte di questo eroe contemporaneo, arriva Iqbal: Bambini Senza Paura, il film di animazione che da quel libro ha tratto libera ispirazione.
L'intenzione dei registi Michel Fuzellier e Babak Payami (rispettivamente italo-francese e iraniano-canadese) è farne una storia senza confini e di respiro universale, che parli ai bambini di tutto il mondo per sensibilizzarli verso un tema importante e delicato come lo sfruttamento del lavoro minorile: a tale scopo, evitano di dare all'azione una localizzazione certa, ambientandola simbolicamente in città dai nomi fittizi e senza riferimenti diretti a nazione alcuna, e preferiscono edulcorare alcuni passaggi che potrebbero urtare la sensibilità dei bambini cui il film è diretto.

L'iqdal del film è un ragazzino intelligente e generoso che, uscito di casa per trovare il modo di acquistare le medicine per il fratello malato, viene condotto con l'inganno alla tenuta del mercante di tappeti, che lo mette a lavorare il telaio dietro la promessa mendace di far avere al fratello le agognate medicine e lasciare lui libero al momento dell'estinzione del debito; ma il giovane, che segregati lì dentro trova altri sei bambini nelle sue stesse condizioni, capisce presto che quella del debito è una scusa e che da lì potrebbe non uscire mai, tanto più che è anche particolarmente talentuoso, e con il suo raro e ricercato "doppio nodo Bangapur" potrebbe produrre tappeti particolarmente remunerativi. Così inizia a mettere in guardia i suoi compagni di sventura, cercando di condurli ad una presa di coscienza della loro condizione di schiavi in vista di una fuga di gruppo per la riconquista della libertà.

Terminato dopo una lavorazione durata oltre cinque anni, Iqdal: Bambini Senza Paura consta di una sceneggiatura semplice, lineare e godibile, ma dà il meglio di sé nel comparto visivo, dove all'efficace animazione in 3D su scenografie disegnate a mano, alterna, in corrispondenza dei sogni (perlopiù) ad occhi aperti del protagonista, degli intermezzi in 2D (elaborati dai disegni di Valeria Petrone) che sono veri e propri lampi onirico-psichedelici. Il tutto contrappuntato dalle musiche ricche, ma fin troppo presenti, di Patrizio Fariselli.
Promosso dall'UNICEF, sempre in prima linea nella lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile, il film di Fuzellier e Payami è stato presentato fuori concorso ad Alice nella Città, nell'ambito della Festa del Cinema di Roma 2015.

Voto ***½

Rilevanza: 2. Per te? No

Monitor

  • Fantascienza
  • Italia
  • durata 78'

Regia di Alessio Lauria

Con Michele Alhaique, Valeria Bilello, Riccardo De Filippis, Claudio Gioè

Monitor

In streaming su Rai Play

ALICE NELLA CITTÀ 2015 - PANORAMA

 

Nel 2011, Premio Solinas e Rai Cinema proposero "Experimenta", un concorso per elaborare il soggetto di un lungometraggio che nei limiti del low budget sperimentasse, a livello di forma o di contenuti. Il soggetto scelto sarebbe poi stato trasformato in un film per il web. Il soggetto in oggetto era quello di Monitor, scritto da Alessio Lauria e Manuela Pinetti, e, quattro anni dopo, la trasformazione può dirsi riuscita.

Il tempo è un presente distopico, il luogo la sede di una multinazionale che di fatto è una microcittà, perché agli impiegati offre anche un appartamento in cui vivere; sul posto di lavoro, invece, la possibilità di usufruire della Sala di Ascolto, ovvero una stanza nella quale entrare, quando se ne sente il bisogno, per parlare - senza essere videoripresi - ad uno schermo che dà risposte da leggere; dall'altra parte, seduto alla scrivania del proprio ufficio, c'è il Monitor, vera e propria figura professionale, il cui compito è quello di ascoltare le richieste, rispondere freddamente, e compilare relazioni da portare al supervisore. Paolo è il miglior Monitor del suo reparto, e l'imminente promozione del proprio supervisore gli ha aperto la possibilità di prenderne il posto: possibilità che si giocherà con la collega Flavia. Quando a un certo punto gli giunge voce che un dipendente ha tentato il suicidio, inizia però a temere che sia uno di quelli assegnati a lui, perché ciò gli costerebbe la promozione, così si mette in testa di cercarlo, prendendo a sospettare di una dipendente che 'ascolta' quotidianamente lamentarsi per la propria insoddisfazione e la propria solitudine.

La solitudine. È la solitudine a farla da padrona in questa fantasocietà orwelliana, la solitudine di chi si sfoga davanti a uno schermo in una stanza vuota, e quella di chi ribatte digitando per contratto frasi fatte. Voci contro parole scritte, senza volti e senza nomi, per salvaguardare un anonimato che in realtà è più illusorio di quanto si creda, perché un posto così strutturato, per avere equilibrio, ha bisogno di controllo.
Presentato ad Alice nella Città sezione Panorama (nell'ambito della Festa del Cinema di Roma), Monitor è un esordio piccolo ma incoraggiante, girato - dal solo Lauria - con stile pulito ed elegante, dominato da un'atmosfera claustrofobica e caratterizzato da un minimalismo anche estetico perfettamente in linea con il mood del racconto.
Come da premessa, non sarà distribuito nelle sale ma sarà disponibile, dal 19 ottobre 2015, gratuitamente sul web attraverso la piattaforma "Rai Cinema Channel".

Voto ***½

Rilevanza: 2. Per te? No

Street Opera

  • Documentario
  • Italia

Regia di Haider Rashid

Con Elio Germano, Clementino, Gué Pequeno, Danno, Tormento

Street Opera

ALICE NELLA CITTÀ 2015 - PANORAMA

 

Il rap italiano ha realizzato dal 1994 una forte evoluzione, partendo come fenomeno di nicchia, legato principalmente al disagio sociale, ed arrivando vent'anni dopo ad essere probabilmente il genere musicale più ascoltato, cantato e ballato tra le nuove generazioni.
Con Street Opera (già titolo di un brano di culto inciso nel 1999 dal beatmaker Fritz Da Cat con l'mc Lord Bean), il regista italo-iraqueno Haider Rashid intende fare il punto della situazione mettendo a confronto cinque artisti che ne propongono declinazioni simili ma diverse, talvolta quasi opposte, ponendo l'accento da un lato su una policromia che è sicuramente una delle ragioni dell'ampiezza dello spettro di pubblico raggiunto, ma dall'altro suggerendo la ricerca di un punto di incontro, di un minimo comune denominatore.

Clementino, Gué Pequeno, Tormento, Danno ed Elio Germano, sono qui 'riuniti' per raccontare prima di tutto il loro rapporto con la musica e con le parole, con il pubblico e con l'industria discografica. E le differenze sostanziali appaiono evidenti sin da subito, specie se, andando sugli estremi, si prova a rapportare l'old school di Danno, mc dei romani Colle der Fomento, con l'hip hop da classifica di Gué Pequeno e dei suoi Club Dogo: il primo fiero della propria integrità e del proprio zoccolo duro di fan, consapevole di non aver fatto i soldi per il rifiuto di sputtanarsi, e portatore di un messaggio talvolta necessariamente politico; il secondo fiero, al contrario, del proprio schema improntato sul trittico "donne/droga/soldi", scelte perché argomenti facilmente recepibili e condivisibili dalla massa. Su piani ancora differenti si pongono Clementino, che dietro alla propria abilità di freestyler cela una formazione teatrale ed un approccio leggero alla forma canzone, o anche Tormento, che dopo aver raggiunto la ribalta con i Sottotono ha avuto il coraggio di fare due passi indietro, scendere dal piedistallo e ricominciare dal basso di quella scena underground nella quale si è formato. Al lato di queste quattro figure, che rappresentano per scelte politico/stilistiche i quattro punti cardinali della scena rap / hip hop italiana, con un ruolo più defilato e meno simbolico si pone l'attore Elio Germano, che con la sua band Bestierare bazzica quasi in incognito la scena romana da vent'anni, e che, condivisibilmente, ne fa una questione di attitudine, paragonando il rap nato negli anni '90 al punk dei '70 o a certa elettronica degli anni zero.
Alla fine della fiera, tra le maglie di un genere musicale considerato di rottura, il minimo comune denominatore che si cercava si può identificare proprio in questa stessa varietà, e nel suo essere (proprio alla stregua del punk degli anni '70, e fatte le dovute proporzioni) promotore di un pensiero libero e di urgenza espressiva.

Voto ***½

Rilevanza: ancora nessuna indicazione. Per te? No

Room

  • Drammatico
  • Irlanda
  • durata 118'

Titolo originale Room

Regia di Lenny Abrahamson

Con Jacob Tremblay, Brie Larson, Joan Allen, William H. Macy, Jack Fulton

Room

In streaming su Netflix

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2015 - SELEZIONE UFFICIALE

 

Jack ha cinque anni, e da quando è nato vive in una stanza di tre metri per tre con la madre Joy: fuori non c'è nulla, gli ha detto lei, e quando c'è bisogno di qualcosa c'è Old Nick, che trova le cose con la magia, arriva e le porta. Jack e Joy non escono mai, perché la porta blindata ha la combinazione, e la conosce soltanto Old Nick. Lì dentro, però, Jack non si annoia, perché nella stanza ha tanti amici: c'è Gabinetto, che è bravo a far sparire la cacca, c'è Armadio, dove la madre lo chiude ogni volta che viene Old Nick, c'è Lucernario, che serve ad avere un po' d'illuminazione quando Old Nick gli toglie la corrente, e poi c'è Televisione, che riesce a contenere nello schermo tante cose vive. A tutti questi amici, Jack dà il buongiorno quando si sveglia e la buonanotte quando va a dormire; e vorrebbe anche condividere il cibo con Topo, ma lui alla mamma proprio non piace, tanto che ogni volta che lo vede cerca di schiacciarlo.

Per tutti i primi cinquanta minuti, la telecamera di Lenny Abrahamson non osa mai uscir fuori da quella che ottimisticamente viene chiamata stanza ma che di fatto è il fatiscente ambiente unico di un piccolo capanno: cinquanta minuti stranianti e claustrofobici, nel corso dei quali lo spettatore familiarizza con il mondo ovattato e fantastico che Joy ha costruito attorno al proprio figlio, per proteggerlo nell'unico modo possibile da una realtà assai più drammatica, e per donare a quella sua costrettissima infanzia almeno un'imitazione della dimensione ludica che le spetterebbe; fino a quando, inevitabilmente, decide che è giunto il momento di giocarsi tutto e spiegargli come stanno veramente le cose: che fuori da quella porta c'è il mondo, popolato da persone alle quali chiedere aiuto per venire salvati.

Tratto dal romanzo omonimo di Emma Donoghue, autrice anche della sceneggiatura, Room potrebbe essere un ottimo film, ma si limita ad essere appena discreto perché, diviso (dis)organicamente in due tronconi, paga dazio alla scelta di raggiungere l'apice del pathos alla metà esatta della propria durata: l'uscita della telecamera all'aria aperta fa infatti da detonatore a quello che, di lì a poco, sarebbe il finale perfetto di un thriller breve ma bello, teso e compatto. Così però non è, perché anziché chiuderla lì, Abrahamson e (prima di lui) Donoghue hanno l'ardire di cambiare radicalmente sia il registro che il fulcro del racconto: il thriller vira dunque in dramma familiare e, anziché l'immediata sopravvivenza dei due protagonisti, i temi portanti divengono da un lato lo svezzamento di Jack alla vita reale, con conseguente abbandono del cuscinetto di bugie salvifiche su cui la madre lo aveva adagiato, e dall'altro i patimenti di lei, mentalmente e fisicamente esausta, e ancora soggetta a lacrime e disperazione. Ma se l'ambizione di azzardare un simile salto mortale è di per sé legittima, altrettanto lo è la delusione per il conseguente fallimento, perché il racconto si allenta, e la forza che aveva nella prima parte rimane solamente un mero ricordo, tanto da far sembrare la seconda null'altro che un estenuante excipit lungo un'ora.

Voto ***

Rilevanza: 4. Per te? No

Truth - Il prezzo della verità

  • Biografico
  • USA
  • durata 121'

Titolo originale Truth

Regia di James Vanderbilt

Con Robert Redford, Cate Blanchett, Elisabeth Moss, Topher Grace, Dennis Quaid

Truth - Il prezzo della verità

In streaming su Infinity Selection Amazon Channel

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FESTA DEL CINEMA DI ROMA 2015 - SELEZIONE UFFICIALE

 

Alla vigilia delle elezioni del 2004, il programma televisivo di approfondimento politico 60 Minutes, trasmesso in prima serata dall'emittente televisiva CBS, mandò in onda un reportage investigativo che accusava il presidente degli Stati Uniti in carica George W. Bush di aver sfruttato amicizie e legami familiari per evitare, tra il 1968 ed il 1973, di partire per il Vietnam e farsi destinare alla più rassicurante National Guard texana. In men che non si dica, però, una campagna mediatica di schiacciante veemenza, portata avanti con l'ausilio fondamentale dei blog, finì per ribaltare le carte in tavola, riuscendo a minare la legittimità di prove apparentemente schiaccianti e a screditare i responsabili del programma, rei di aver dato la notizia. Così, mentre Bush batté John Kerry confermandosi presidente per il secondo mandato consecutivo, Mary Mapes - produttrice del reportage e anima di 60 Minutes - si ritrovò letteralmente processata dal gotha giornalistico della propria emittente.

La storia narrata in Truth è forse già nota a molti, perlomeno nelle linee generali, ma il problema, in questa trasposizione cinematografica, sono proprio i dettagli; attingendo a piene mani dal libro scritto dalla stessa Mapes subito dopo i fatti (Truth and Duty: the Press, the President, and the Privilege of Power), il regista esordiente James Vanderbilt si premura di inserirne in ogni dialogo, per fornire un resoconto il più possibile rigoroso: meticoloso ed estremamente preciso nel ricostruire gli eventi senza tralasciare nulla, Vanderbilt impiega però mezzo film prima di riuscire a rallentare e trovare il ritmo giusto, ovvero quello che permette alla componente emotiva e relazionale di poter interagire con quella meramente espositiva (e a forte rischio di didascalia). Va da sé che ad una seconda parte liscia, scorrevole e tutto sommato coinvolgente, ci si arriva stanchi per la prima, convulsa ed eccessivamente verbosa, nella quale i personaggi sono letteralmente schiacciati dal racconto. Preso atto della meritoria scelta di voler promuovere una riflessione sui rapporti tra la stampa ed il potere ai tempi di internet, Truth resta un film riuscito solamente a metà, e in cui la maggior parte dei meriti vanno ai due notevoli protagonisti, Cate Blanchett e Robert Redford, che con le loro interpretazioni forti permettono ai caratteri di Mary Mapes e Dan Rather (suo sodale, storico anchorman del CBS Evening News) di emergere alla distanza ed avere la meglio sulla mano pesante e sulla tendenza a ridondare dell'acerbo Vanderbilt.

Voto ***

Rilevanza: 3. Per te? No

These Daughters of Mine

  • Commedia
  • Polonia
  • durata 88'

Titolo originale Moje córki krowy

Regia di Kinga Debska

Con Agata Kulesza, Gabriela Muskala, Marcin Dorocinski, Marian Dziedziel

These Daughters of Mine

In streaming su Netflix

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Marta è un'attrice resa popolare dalla partecipazione stabile ad una serie tv di successo: è una donna risoluta e sicura di sé ma sostanzialmente sola, e da sola ha allevato una figlia divenuta ormai maggiorenne. Kasia insegna in una scuola elementare, ha un carattere insicuro e lunatico ed è sposata ad un uomo senza qualità che cerca lavoro sperando di non trovarlo, dal quale ha avuto un figlio ora adolescente.
Marta e Kasia sono sorelle, e nonostante i repripoci impegni e le diversità di vedute, si trovano costrette ad unire le forze quando le condizioni di salute della madre, già diabetica e malata di cancro, precipitano in seguito ad un'emorragia cerebrale che la riduce in coma farmacologico. Ad aggravare ulteriormente la situazione interviene, di lì a poco, l'imprevisto ricovero anche del dispotico padre Tadeusz il quale, grazie agli accertamenti seguiti ad uno svenimento avvenuto proprio mentre era in ospedale, scopre di avere un tumore maligno al cervello

Leggendo questo popò di sinossi, può venir naturale pensare che l'incasellamento di These Daughters of Mine sotto il genere "commedia" sia un evidente un refuso. Trattasi, invece, proprio della caratteristica che vorrebbe distinguerlo dalla stragrande maggioranza dei film che vertono su tematiche simili.
«La commedia è il miglior modo per parlare di una tragedia: la risata è liberatoria». Questa è la dichiarazione d'intenti con cui la regista Kinga Debska presenta These Daughters of Mine, soffermandosi sulla necessità di esorcizzare il dolore ed ammettendo di aver preso spunto dalla propria esperienza personale: e quello è in sostanza il registro adottato, con almeno un paio di personaggi (il padre testardo e sboccato e la maldestra Kasia, la più umorale delle due sorelle) deputati per carattere ad innescare meccanismi tipici della farsa. Peccato, però, che di risate liberatorie non ci sia nemmeno l'ombra, e che il tentativo di intermezzare un racconto per forza di cose drammatico con momenti in qualche modo più leggeri si risolva perlopiù in battibecchi irritanti o situazioni prevedibili se non già viste, producendo come effetto finale quello di un innesto abortito tra due componenti che anziché amalgamarsi si annullano a vicenda.
Dal parziale naufragio di questa operazione non riuscita, va fatto salvo il garbo con cui la regista attraversa il terreno minato del 'film sulla malattia', schivando pietismi e patetismi facili: è meritorio, ma non basta a fare un buon film.

Voto **½

Rilevanza: 2. Per te? No

Alaska

  • Drammatico
  • Italia
  • durata 125'

Regia di Claudio Cupellini

Con Elio Germano, Astrid Berges-Frisbey, Valerio Binasco, Elena Radonicich

Alaska

In streaming su Amazon Video

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Il primo incontro tra Fausto (Elio Germano) e Nadine (Àstrid Bergès-Frisbey) avviene sul tetto di un albergo di Parigi: un albergo di lusso dove lui lavora come cameriere, mentre lei sta facendo un provino da modella; lui aspira a diventare maître, per guadagnare quattromila euro al mese, mentre lei, con i suoi vent'anni, a cosa fare da grande forse ancora non c'ha pensato. Quel primo incontro, però, finisce male: perché la visita alla suite da quindicimila euro a notte, da lui propostale per sentirsi, per una volta, come i ricchi che di solito serve al tavolo, si conclude con l'ingresso in stanza del legittimo affittuario e una colluttazione che conduce Fausto dritto dritto in carcere per lesioni volontarie. Ci trascorrerà due anni durante i quali lei lo aspetterà, perché, nonostante tutto, quei pochi minuti sono bastati a fiutarsi e a riconoscere, l'uno nell'altra, la stessa solitudine e le medesime fragilità.

Alaska di Claudio Cupellini parte bene: secco, godibile, con dialoghi spigliati e due attori affiatati che rendono da subito credibile la chimica tra i rispettivi personaggi. Ma la luna di miele con lo spettatore dura sì e no una mezzoretta. E ad interrompere quello che era stato un racconto fluido non è un episodio piuttosto che un altro, né tantomeno qualche passaggio a vuoto dovuto ad inerzia. Ciò che rende alla lunga sfiancante la visione di Alaska è, al contrario, la sua tendenza all'accumulo: perché Cupellini e i suoi co-sceneggiatori, Filippo Gravino e Guido Iuculano, ambiscono a farne l'epopea di un amore, e nelle due ore di durata spalmano cinque anni di tira e molla, spostamenti e cambiamenti, anche radicali, nelle vite di entrambi i protagonisti, ma con una fretta che spezza il ritmo e non aiuta ad empatizzare: il respiro del racconto, che si vorrebbe epico, si fa invece assai affannoso, e le varie evoluzioni - talvolta anche forzate - si inseguono senza sosta, ma senza nemmeno destare il minimo interesse. Il film di Cupellini, che dice di ispirarsi a Il Grande Gatsby di Fitzgerald, manca di senso della misura, e si perde alla distanza tra le proprie giravolte e i propri confusi e superflui colpi di scena.
Da rimarcare in positivo, oltre alla solita grande prova di Elio Germano, è senza dubbio la buona colonna sonora a (quasi) tutto indie rock, che assieme a una bella manciata di pezzi dei padovani Jennifer Gentle, chiamati a caratterizzare il suono del locale che dà il titolo al film (e attorno a cui ruota nella parte ambientata a Milano), ospita, tra gli altri, brani di Blonde Redhead, Interpol e Micah P. Hinson.

Voto **½

Rilevanza: 1. Per te? No

Girls Lost

  • Drammatico
  • Svezia
  • durata 106'

Titolo originale Pojkarna

Regia di Alexandra-Therese Keining

Con Tuva Jagell, Emrik Öhlander, Wilma Holmén, Vilgot Ostwald Vesterlund, Louise Nyvall

Girls Lost

In streaming su Amazon Prime Video

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Intimamente, Momo vorrebbe che il legame profondo instaurato con Kim diventasse qualcosa di ancora più grande, ma Kim è confusa sulla sua identità sessuale, tanto da pensare di avere da qualche parte una cerniera chiusa che nasconde il suo vero corpo. Con Bella, Kim e Mom completano un trio di amiche inseparabili ma emarginate e vessate dai compagni di scuola, costrette per questo a passare le giornate prevalentemente tra loro a rimuginare sugli insulti sessisti subiti e a pensare a quanto è svantaggioso essere donne. Bella, che ha una grande serra e il pollice verde, riceve un giorno a casa un misterioso seme: decidono di piantarlo, e nel giro di una notte ne esce un fiore alto un metro e mezzo con i petali che grondano linfa. Incuriosite dal suo buon odore, le tre ragazze decidono di assaggiarla scoprendo che ha un potere miracoloso: le trasforma in uomini, dal tramonto all'alba. Durante la prima notte rimediano una partita a calcetto e una festa, e quando si risvegliano, la mattina, sono di nuovo femmine, ma stavolta contente. Durante la seconda, Kim rompe l'idillio con le amiche, lasciandole sole per andar dietro al ladruncolo Tony. Diversamente da loro, che preferiscono il loro corpo originale, Kim ha capito che sotto quella sua cerniera c'è un maschio gay, e vuole tornare a trasformarsi per capire se con Tony (che fa il duro e ha la ragazza, ma non si sa mai...) c'è margine di manovra. Ma a furia di esser succhiato, il fiore si sta seccando.

Pare che il libro da cui questo film è tratto abbia avuto un grosso successo in Svezia. È possibile, anzi probabile. Ma è probabile anche che per raggiungere quel successo, l'autrice (Jessica Schiefauer) abbia adottato un linguaggio, o creato delle atmosfere, atti a rendere 'possibile' il realismo magico che è al centro dell'azione: esattamente il quid che manca al film, dove la magia appare scollata dal resto della storia, calata dall'alto e senza alcun costrutto, e dove il tocco fantasioso, onirico o surreale dovrebbe essere dato da qualche scenetta vagamente psichedelica buttata lì. E in questo contesto-non-contesto, con una sceneggiatura che vorrebbe essere originale ma appare solamente frettolosa, di certo non aiuta la scelta, per i doppi ruoli dei tre personaggi principali, di attrici ed attori tra i quali la somiglianza è pari a zero.
Girls Lost è un coming of age fantasy fuori registro, e quella della regista - Alexandra-Therese Keining - una mano boriosamente sterile.

Voto **

Rilevanza: 1. Per te? No

About Scout

  • Drammatico
  • USA
  • durata 109'

Titolo originale About Scout

Regia di Laurie Weltz

Con India Ennenga, James Frecheville, Onata Aprile, Danny Glover, Ellen Burstyn, Nikki Reed

About Scout

ALICE NELLA CITTÀ 2015 - CONCORSO

 

A quindici anni, Scout è il primo punto di riferimento della sorella minore Telullah, perché la madre è stata uccisa dalla droga, ed il padre, giostraio in un circo, si è liberato di loro ritenendosi inadatto a crescerle, lasciandole alla bisnonna Gram che, bloccata su un letto dagli acciacchi della vecchiaia, nonostante la buona volontà non è più in grado di aiutarle come vorrebbe. Sam, di poco più grande, è nato da una famiglia ricca nell'ovest dello stato di New York, e dopo aver tentato, fallendo, il suicidio che al padre era riuscito qualche tempo addietro, è stato spedito dalla madre, egoista e anaffettiva, in un ospedale psichiatrico adiacente all'abitazione di Scout, in una piccola cittadina del Texas. Ribelle e anticonformista, Scout prende subito in simpatia il nuovo 'vicino' per la testardaggine con cui contravviene ad ogni ammonimento degli infermieri, incurante delle loro reazioni.
Quando i servizi sociali dichiarano la bisnonna inadatta a badare alle due nipoti, il padre torna con una nuova compagna portandosi via la sola Telullah, con la speranza, così, di ottenere qualche aiuto economico dallo stato. Scout non ci sta, e va a cercare Sam convincendolo a fuggire insieme: lui per tornare libero, e lei per riprendersi la sorellina. Rubata in men che non si dica una macchina in un autonoleggio, e resa irriconoscibile come per magia grazie a un po' di carta abrasiva ed un cacciavite, i due partono verso Clayton, dove il circo del padre di lei sta per fare tappa, tallonati da un ex poliziotto pagato dalla madre di Sam che intende portarlo indietro prima possibile.

Presentato in concorso ad Alice nella Città, sezione autonoma della Festa del cinema di Roma dedicata a tematiche infantili, Scout è l'ennesimo racconto di formazione incentrato su figure di ragazzi più o meno problematici, e non solo non aggiunge nulla a quanto già detto prima da altri, ma lo fa in maniera maldestra e superficiale, per via dei difetti della sceneggiatura scritta a quattro mani dalla regista Laurie Weltz con la figlia India Ennenga, che interpreta il ruolo della protagonista: poco plausibile e infarcita di omissioni, disegna Sam come un bozzetto bidimensionale e Rey, l'ex poliziotto che li insegue, come uno sprovveduto capace di leggerezze improbabili, e tende alla semplificazione delle situazioni fornendo una costante idea di indeterminatezza ed improvvisazione, uccidendo sul nascere qualsiasi ipotesi di coinvolgimento emotivo, nel contesto di un quadro generale raffazzonato nel quale la buona prova generale del cast e la presenza di qualche passaggio ben girato passano rapidamente in secondo piano. Da evitare serenamente.

Voto **

Rilevanza: 2. Per te? No
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