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À tout prendre

Regia di Claude Jutra vedi scheda film

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La recensione su À tout prendre

di spopola
8 stelle

Secondo lungometraggio di Jutra fortemente influenzato dalla corrente francese della Nouvelle Vague, è considerato (insieme a “ Il gatto nel sacco” di Gilles Groulx) il primo vero film del cinema moderno del Quebec canadese e uno dei più inventivi di quella cinematografia, proprio per la rivoluzione apportata alla forma della narrazione.

A’ tout prendre di Claude Jutra (regista e interprete) è il primo vero «carnet de notes» cinematografico: così lo definì Adriano Aprà quando il film, dopo aver trionfato al Festival di Montreal, fu presentato a Porretta Terme dove vinse il premio speciale della giuria  (ex-aequo con Qualcosa d’altro di V?ra Chytilovà)  e quello per la migliore interpretazione femminile. Può sembrare forse che l’acuto critico esprima così un giudizio un po’ troppo astratto, ma chi ha avuto modo di visionare la pellicola sa che è invece  stata la maniera migliore e più appropriata (probabilmente l’unica possibile) per  riuscire a determinare nella sua complessità strutturale questo straordinario mélange visivo-sonoro  che è quasi una “autofiction” (nel senso che, pur non trattandosi di vera e propria autobiografia, vengono indubbiamente  filtrate ed esaltate al suo interno molte delle personali problematiche esistenziali del suo autore).

Un’opera dunque dove visivo e sonoro si compenetrano integrandosi a vicenda (anche confondendosi  un poco a volte), ma sempre in assoluta autonomia l’uno dall’altro. Il tutto raccordato dentro una narrazione svolta al tempo presente, ma  sviluppata secondo  modalità  “interpretative” che si articolano in più dimensioni,  rispettando cioè quel “nuovo modo di fare cinema”  nato in Francia proprio in quegli anni e tenendo soprattutto conto della lezione di Godard-Rozier.  Il risultato (una specie di cinema-verità che si fonde con il racconto di una storia che segue i flussi di un percorso mentale capace a volte di interrompere - o sospendere - il cronologico fluire del tempo  ma senza rinnegarlo, solo frantumandolo un poco e “divagandoci” sopra fra pensieri e riflessioni) è forse complessivamente ancora un po’ confuso, ma di particolare, vivida, affascinante pregnanza. Questo fluire disarticolato e dissociato (anche fra parola e azione) delle immagini e dei suoni, fornisce allo spettatore (nonostante la difficoltà di appropriarsi con una sola visione del film di tutte le implicazioni messe in campo) la giusta chiave di lettura per comprendere un lavoro che  tende a mantenere distinti – così come accade nella vita di ogni giorno - i due piani (la realtà e l’immaginazione della mente) su cui si trova ad operare.  Citando ancora Aprà, possiamo infatti,dire che Jutra “tecnicamente” rispetta i dati logici, ma non impone la realtà al sogno o il sogno alla realtà. Bilancia invece le due cose con un montaggio così creativo da volgere in positivo, soprattutto  sotto il profilo dello “stile”, quella che potrebbe apparire come l’apparente casualità dei flussi del racconto, una modalità forse non del tutto nuova, ma resa stimolante da un miscuglio di linguaggi ben coordinati fra loro che vanno dal piano-sequenza al “flash”, dal fermo immagine alla riflessione onirica e alla marcata valenza simbologica di alcune parti, e che si ravvivano e trovano la loro forza penetrativa proprio nell’insolita creatività della “forma” che  diventa  forse il più autentico e prioritario elemento di importanza (anche “contenutistica”) del film (persino rispetto alla storia narrata, che  alla fine, se si vuole,  ripercorre più o meno fedelmente lo schema convenzionale del giovane artista un po’ tormentato di estrazione borghese che grazie a un innamoramento - quello per una bellissima mulatta con cui decide di andare addirittura a convivere, sfidando la morale corrente e l’ipotesi non peregrina di una sottesa omosessualità - tanto improvviso e fuori “norma” da mettere in crisi ogni precedente acquisita certezza,  si trova costretto suo malgrado a un ripensamento complessivo sull’esistenza e la  vita stessa che si risolve in un più profondo scavo conoscitivo alla ricerca del proprio “io” e si conclude alla fine drammaticamente  proprio con il rifiuto  di questo “amore”).

Nessuna volontà di fare la morale però, nessun intento predicatorio o tentazione cattedratica di denuncia fine a se stessa, ma come ho già detto, ma un ispirato susseguirsi di immagini e suoni che  ripercorrono e riproducono un cammino tutto mentale, una specie di “stream of consciousness”  anticonvenzionale e tutt’altro che strutturato, definito (è ancora Aprà a farlo) come un neo-realismo visivo e sonoro delle immagini e degli stimoli che attraversano il cervello.

Secondo lungometraggio di Claude Jutra fortemente influenzato dalla corrente francese della Nouvelle Vague (non tanto per la corrispondenza del pensiero, quanto per la a formazione professionale del suo autore che nel 1958 era “emigrato” momentaneamente in Francia per collaborare con Truffaut e Jean Rouch, respirandone l’aria e gli stimoli) è considerato (insieme a  “ Il gatto nel sacco” di Gilles Groulx) il primo vero film del cinema moderno  del Quebec canadese e uno dei più inventivi di quella cinematografia, proprio per la rivoluzione apportata alla forma della narrazione.

Visto a posteriori poi, presenta anche una inquietante corrispondenza  premonitrice con il percorso di vita del suo autore: se in film si conclude infatti con una scomparsa che suggerisce in pratica l’ipotesi di un suicidio, nella vita reale anche Jutrà, al quale venne diagnosticata l’inaccettata malattia di Alzheimer nei primissimi anni ’80, fu  trovato morto sulle rive del fiume St. Lawrence, nella primavera del 1987, diversi mesi dopo che se ne erano perse le tracce: nessuna definitiva verità acclarata  su come erano andate le  cose ovviamente, ma l’ipotesi minacciosa  di un suicidio programmato e messo in atto scientemente prima che la malattia devastasse definitivamente la sua mente aleggia mestamente su tutta la vicenda e la rende ancor più drammatica.

 

Praticamente sconosciuto in Italia (una conferma della nostra sempre più incolmabile arretratezza culturale) Claude Jutra,(11 marzo 1930 - 5 Novembre 1986, data alla quale viene fatta risalire la sua dipartita) è stato e rimane uno dei nomi di punta (attore, regista e scrittore) del nuovo cinema del Quebec, tanto da far intitolare a suo nome (il Jutra Prix) il  riconoscimento che annualmente viene assegnato al miglior film di quel paese.

Prima di dedicarsi alla sua passione per il cinema però aveva studiato medicina a Montreal, la città che gli ha dato i natali, e solo nelThe Prix Jutra are named in his honor because of his importance in Quebec cinema history . 1954 si decise  a dare inizio alla formazione professionale  artistica delal sua vocazione presso il National Film Board of Canada, lavorando principalmente  per la televisione.

Oltre che con Truffaut  e Rouch ha collaborato anche con McLaren e Brault, approdando poi alla regia in proprio al suo rientro in Canada dopo l’apprendistato francese.

A’ tout prendre è l’opera che lo ha imposto all’attenzione della critica internazionale per le insolite modalità di rappresentazione della storia del nascere e dell’esaurirsi di un rapporto amoroso, rivelandone il talento e la misura di regista, soprattutto nel controllo dei momenti soggettivi e sentimentali degli sviluppi narrativi.

Dopo un bel documentario sulle tecniche dell’insegnamento, Comment savoir del 1966, ha realizzato soprattutto film di analogo impianto eo opere fortemente impegnate di cinema-verità (Wow nel 1969,  Kamourasaka nel 1972, Pour le meilleur et pur le pire nel 1975). Di particolare rilevanza il risultato che ha di nuovo raggiunto nel 1971 con  Antoine mon oncle.

Nel 1984, quando già l’Alzheimer stava avanzano progressivamente lacerandogli il cervello, gli è stato conferito il Premio “Albert-Tessier”.

Della sua tragica scomparsa avvenuta nel 1986, ma scoperta solo nel 1987, ho già detto sopra e non credo ci sia altro da aggiungere, se non il rimpianto per una prematura dipartita.

La sua filmografia completa (ripresa di Wilkipedia) è la seguente:

- come attore:

-         A Chairy Tale (1957)

-         À tout prendre (1964)

-         Le Viol d'une jeune fille douce (1968)

-         Préambule (1969) (solo voce recitante)

-         Act of the Heart (1970)

-         Mon oncle Antoine (1971)

-         On est loin du soleil (1971)

-         Love on the Nose (1974) (TV)

-         Pour le meilleur et pour le pire (1975)

-         La Fleur aux dents (1976)

-         Arts Cuba (1977) (solo voce recitante)

-         Two Solitudes (1978)

-         Riel (1979) (TV)

-         Till Death Do Us Part (1982) (TV)

-         Bonheur d'occasion (1983)

- come regista (o co-regista):

-         A Chairy Tale (1957) (co-director)

-         La Lutte (1961) (co-diretto con Marcel Carrière, Claude Fournier e Michel Brault)

-         À tout prendre(1963)

-         Wow (1969)

-         Mon oncle Antoine (1971)

-         Kamouraska (1973)

-         Pour le meilleur et pour le pire (1975)

-         By Design (1981)

-         La dame en couleurs (1984).

 

Particolarmente amato in Francia, oltre che da Truffaut, Jutra ha ricevuto speciali apprezzamenti anche da Jean Renoir, Jean Cocteau, John Cassavetes, e soprattutto da Jean-Luc Godard, al quale può essere più direttamente raffrontato (le spiccate  dicotomie riscontrabili in A’ tout prendre  anticipano proprio, anche se su un versante più privato e meno politico, i risultati della maturità artistica del Maestro francese, come quelli per esempio espressi nel recente Film socialisme).

Per quel che ci riguarda (l’Italia) la sua fama è comunque rimasta interamente legata a un solo titolo (sufficiente a mio avviso per decretarne la grandezza), A’ tout prendre  appunto, che è proprio lo spudorato autoritratto di cui sto parlando in questa circostanza, una storia d’amore quasi elementare con le sue paure, le sue gioie e le sue incertezze che ci racconta di un uomo e di un  artista  così bisognoso di “assoluto” da non saper trovare che frammenti di risposte anche alle implicazioni sentimentali della vita, e persino incapace di assumersi la responsabilità di una paternità in gestazione. La forma  frammentaria delle immagini, raggiunge spesso i migliori risultati proprio puntando sull’improvvisazione degli attori, stimolata da una macchina da presa  mobile e un po’ ossessiva che li accompagna in un percorso a ostacoli dove si intrecciano appunto fantasie e simbolismi, come accade verso la fine del film (l’immagine insistita della mela, il frutto della tentazione e del peccato originale) o nella reiterata insistenza sugli uomini nero vestiti che inseguono Claude, il protagonista (quasi tutti i personaggi che si richiamanio alla vita del suo creatore, hanno mantenuto il loro vero nome anche nella finzione scenica, e questo accentua il senso un po’ inquietante di trovarsi di fronte a un’opera  così “realisticamente sperimentale” da risultare quasi unica e irripetibile.

Claude dunque  si interroga sull’amore  e cerca di trovare le risposte giuste nei frammenti tortuosi della sua memoria alla ricerca di assoluto: le tecniche utilizzate sono prese in parte in  prestito dal cinema verità: illuminazione naturale per quanto possibile, e cinepresa direttamente coinvolta nell’azione. Da non dimenticare poi l’uso originale e vivacissimo che viene fatto della musica, e soprattutto del corpo splendido e del volto penetrante di Johanne Barelle, straordinaria, conturbate attrice e “musa” giustamente premiata a Porretta.

La trama

Claude,  giovane cineasta di 30 anni proveniente da una famiglia borghese, si innamora di Johanne, bellissima mannequin di pelle nera. Comincia così a mettere in discussione le scelte che ha fatto e le prospettive future minacciate anche da una latente omosessualità. La non accettazione della sua futura paternità, lo mette nella condizione di fare un esame critico di ogni cosa,  degli orientamenti sessuali, della sua famiglia, dei suoi rapporti e delle responsabilità che emergono. Una  tormentata relazione fortemente conflittuale la loro,  che costringe l’uomo a un totale ripensamento della sua esistenza e a una ricerca del suo io più profondo  che si risolve alla fine con una tragico rifiuto di questo amore e della vita stessa.

Strutturata quasi come una confessione “ libera” e dissociata  di Claude, l’opera è zeppa di allusioni e suggestiono che spaziano fra jazz, poesia  e nuovo cinema Wawe che aiutano a riflettere non solo sul sofferto percorso del protagonista, ma anche sull’evoluzione (e la scarsa capacità di presa di coscienza) di una intera generazione irrequieta, impaziente e problematica  ma probabilmente non adeguatamente strutturata per riuscire ad assumersi davvero le responsabilità imposte dalla società e dalla vita.

 

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