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Titane

Regia di Julia Ducournau vedi scheda film

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H Bakshi

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Titane

di H Bakshi
8 stelle

Sgradevolezza d’autore, un lucido incubo fatto di scene quasi insopportabili: tutte necessarie.

“Fai attenzione: perché entrare nella mia mente… è un viaggio senza ritorno!”, così si esprime il simpatico Ipkiss, protagonista del film “The Mask” interpretato da Jim Carrey e la battuta ci fa sorridere perché il suo personaggio è un “tenerone”. Ma in “Titane” è proprio questo che succede! “Titane” è un viaggio senza ritorno nella mente di una donna estremamente disturbata, che uccide senza un motivo preciso (genitori compresi), che si accoppia con un’automobile (sic!), che si cambia i connotati auto-frammentandosi il naso, che partorisce un essere semi-meccanico.

Ho guardato il film in due tempi, resistendo per tutta la prima parte ai colpi bassi (dalle scene hard ora con umani, ora con una Cadillac, ai vomiti delle vittime con un punteruolo conficcato nell’orecchio, alla fuoriuscita dell’olio di motore dalla vagina) quasi convincendomi di aver visto uno degli spettacoli più inutili, insensati e ripugnanti della storia del cinema. Mi sono poi convinto che bisognava vedere come andava a finire, e la seconda parte ha dato un senso alla prima. Le possibilità di raccontare una storia non sono infinite: fin dai tempi della tragedia greca, i canovacci sono stereotipati: nella maggior parte dei casi si tratta di storie di redenzione o della difficoltà dei protagonisti a raggiungere un obiettivo: le storie ci parlano di persone buone o di cattivi, di eroi o di santi, di coraggiosi o di ansiosi che ci compiacciamo di riconoscere. In “Titane” le cose sono diverse: la protagonista (Alexia) è una persona che tecnicamente si definirebbe “in diffusione d’identità”, ovvero incapace di distinguere tra il bene e il male perché è incapace di vedere se stessa: un’accozzaglia di istinti, paranoia, ricerca di piacere che diventa l’unico riempitivo della propria misera vita. La protagonista non può oggettivamente suscitare la nostra empatia, oltre a dimostrare ripetutamente di non averne: vuole solo sopravvivere. Dopo una serie di omicidi, vedendosi braccata, Alexia si trasforma fisicamente nel sosia del figlio di un comandante dei pompieri, sparito nel nulla dieci anni prima (la trasformazione è davvero impressionante e la regista, ancora, non ci risparmia alcuna delle scene sgradevoli di questo mutamento). Attraverso questa mimesi, la protagonista si avvicina al padre che ha perso il figlio e riesce a farsi adottare da lui, il quale preferisce non farsi troppe domande, pur di potersi cullare nell’illusione di superare il proprio lutto. Il comandante non è una persona qualsiasi: è un maschio alfa, a capo di un gruppo di pompieri che tratta come dei figli e tra i quali inserisce anche il nuovo arrivato. Nemmeno il comandante è una persona gradevole: è brusco e direttivo, vive nella solitudine, si inietta anabolizzanti per contrastare la vecchiaia incipiente. Ma si tratta di una persona che si è costruita sulla capacità di dirigere e di aiutare gli altri. Dal punto di vista identitario siamo all’opposto della protagonista: dove quella è smarrita, questo è del tutto consapevole del proprio ruolo. Dove la prima manca completamente di empatia, il secondo è disposto al sacrificio ed accetta tutte le bizzarrie ed imperfezioni del “figlio”.  Ad un certo punto la squadra va a salvare un giovane uomo in overdose e mentre il comandante interviene, insegna al proprio “figlio” a rianimare la madre della vittima, che nel frattempo ha avuto un infarto. Per la prima volta, la protagonista non sono viene accettata ma riceve fiducia. Per la prima volta, come un animale selvatico, la protagonista si fa “addomesticare”, inizia a far parte di un gruppo che, comunque, essendo composto solo da muscolosi pompieri maschi (che ogni tanto ballano fra loro!) resta sempre qualcosa di diverso da sé. Ad un certo punto anche il “figlio” inizia a ballare, ma lo fa con le movenze della lapdance: tutti vedono la sua diversità. E’ un momento di acuta sofferenza. Segue la scena del parto, durante il quale la protagonista (incinta di una Cadillac, quasi a voler sottolineare la propria estraneità alle gioie della maternità) muore e il comandante…si prende cura del neonato. Che dire? Un film decisamente insolito, che non è un horror (o meglio: è un horror “esistenziale”), girato con estrema accuratezza, le cui inquadrature, sempre molto cupe, diventano più limpide a mano a mano che la storia procede e che l’occhio della protagonista diventa capace di osservare veramente. Un film di sguardi, con molte scene mute in cui gli attori danno il meglio di sé. Un film diverso dagli altri, con alcune ingenuità (uccidere un uomo infilandogli un punteruolo nel meato acustico esterno è una delle cose più scomode e improbabili, la presenza di una placca di titanio nel cranio della protagonista è un macguffin che serve solo a dare il titolo al film) ma che è unico nel rendere la soggettiva di una mente completamente smarrita. Uno squallore e una pena che mi hanno ricordato, in maniera riveduta e scorretta la sensazione provata nelle ultime scene de “La Strada”: Alexia come Zampanò.

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