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Accattone

Regia di Pier Paolo Pasolini vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Accattone

di IlCinefilorosso
9 stelle

Con Accattone Pasolini inaugura un nuovo modo di guardare il sottoproletariato romano.

Nel 1961, il boom economico sta riconfigurando il volto dell’Italia: le periferie crescono in modo incontrollato, la borghesia prospera, i consumi diventano forza motrice. E proprio mentre il Paese abbandona le sue radici contadine per inseguire il miraggio del progresso, Pasolini filma i poveri, i marginali, i sottoproletari non come persone “di poco conto”, ma come se fossero figure antiche, quasi mitiche, portatrici di una dignità originaria, primitiva, sacra.

Fin dall’apertura, il film rivendica una diversa genealogia simbolica. Non c’è un ingresso diretto nel racconto, ma un cartello con i versi del Purgatorio (“L’angelo di Dio mi prese e quel d’inferno gridava…”). Questo richiamo dantesco non è un ornamento letterario: è l’annuncio di un cinema che si dispone sul crinale, sempre instabile, tra tragedia e teologia. Accattone, figura marginale e derelitta, è da subito inscritto in un orizzonte più vasto della sua stessa miseria; la sua storia non è cronaca, ma parabola.

 

A sostenere questo impianto è soprattutto la costruzione dello spazio: le borgate filmate da Pasolini sono distese brulle, danneggiate, prive di orizzonte e tuttavia attraversate da una sorta di sospensione metafisica. I personaggi abitano porzioni d’inquadratura che spesso li sovrasta. È come se la macchina da presa, più che registrare, misurasse la distanza tra gli esseri e il mondo, tra il corpo e la sua terra. In questa sproporzione silenziosa nasce la poetica pasoliniana del sacro: non come promessa ultraterrena, ma come bagliore che affiora nella degradazione, come residuo spirituale incastrato dentro la carne del reale.

 

Questa tensione trova il suo vertice nella sequenza del sogno. Accattone si addormenta e il film si libera in uno spazio astratto, bianco, sovraesposto, un altrove che assomiglia al deserto e alla morte. Il protagonista assiste al proprio funerale, vede la bara che lo precede, avanza su un ponte che è allo stesso tempo soglia e destino. È un’apparizione teologica: l’uomo si confronta con la verità del proprio essere, con quella morte che Pasolini concepisce come unico momento capace di fissare la vita e darle un senso.

 

Così, quando la morte arriva davvero — improvvisa, casuale, per sottrazione — Accattone mormora: “Ora sto bene”. Una frase  che sa di epifania. La pace finale è la rivelazione che il sacro da sempre attraversava la sua vita profana, che quell’esistenza errante, disperata, sgangherata, possedeva una dignità ignota al mondo. Accattone si compie.

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