Regia di Sean Byrne vedi scheda film
Tra gli innumerevoli supplizi a cui costringe “The Devil’s Candy”, è impossibile non citare l’ennesimo trasloco in una funesta dimora acquistata per pochi spiccioli a causa di misfatti precedentemente ivi compiuti - dichiarati dal venditore a mezza bocca - su cui i nuovi proprietari, naturalmente, mai si sognerebbero di spendere un solo minuto di prezioso approfondimento sottraendolo alle proprie affaccendate esistenze.
Il film si disperde nella sterminata palude di produzioni indipendenti low-budget che tentano il grande salto, non riuscendo ad affrancarsi da un comparto cinematografico blando e ordinario, sostenuto tremulamente da un’orchestrazione narrativa terribilmente inflazionata e sdrucciolevole nella sua più che prevedibile escalation.
La penetrante soundtrack, che spazia tra Metallica e Slayer, non è singolarmente sufficiente a fornire anche solo l’impressione di un briciolo di originalità, dal momento che questa non riesce mai a elevarsi quale strumento descrittivo oltre che di accompagnamento; spostare il focus della suddetta dalla bigotta accezione di richiamo demoniaco verso un piano terapeutico, di evasione dalla realtà, per tenere a debita distanza un male pervasivo che non la rappresenta, avrebbe potuto rivelarsi un’idea vincente, sebbene tale aspetto non riesca mai ad acquisire consistenza. A conti fatti, la musica potrebbe tranquillamente essere di tutt’altra natura e la sostanza non cambierebbe, ma è fin troppo ghiotta l’occasione di concedere alla pellicola un look melodicamente alternativo a buon mercato.
Inoltre, è evidente la volontà di tentare una conciliazione profonda tra la colonna sonora e lo spirito dei protagonisti, i quali dovrebbero quindi, prima di tutto, incarnare appieno anche i valori estetico-culturali di quel determinato genere musicale; tuttavia, risulta immediatamente chiaro come la caratterizzazione dei personaggi principali – il padre, la figlia e il killer, dato che il peso specifico della madre è del tutto irrilevante - sia un coacervo di raffazzonati cliché immersi in un’atmosfera di distante raffinazione, del tutto setacciata dalle rustiche intenzioni dichiarate.
L’apoteosi degli sprazzi di terso perbenismo giunge con una conclusione di conciliatorio delirio, in cui il barbuto protagonista dalla folta chioma, ferito al costato dallo squilibrato antagonista e soggetto a un’apparente – miracolosa – resurrezione (non ha neanche dovuto aspettare il terzo giorno!), vince l’empietà attraversando fiamme allegoricamente infernali, sublimandosi definitivamente in una figura neo-cristologica, portatrice di pace e gaudio in un mondo avvolto da metalliche tenebre.
Ai temerari giunti fino a questo punto, non resta che constatare l’unico aspetto effettivamente inquietante del film: uno dei peggiori finali a memoria d’uomo rappresenta il meglio che esso riesca ad offrire in termini di intrattenimento, lasciando sul viso un beffardo sorriso del tutto impronosticabile alla vista della lugubre locandina.
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