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Grand Budapest Hotel

Regia di Wes Anderson vedi scheda film

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La recensione su Grand Budapest Hotel

di CineNihilist
10 stelle

Capolavoro immenso di Wes Anderson. Una vita, un dolore, un amore, un'amicizia, una guerra, un'eredità. Questi sono gli elementi che ti porteranno ad amare la storia del Grand Budapest Hotel.

#UNQUARTODISECOLODICINEMA

 

Grand Budapest Hotel è stato il primo film di Wes Anderson che ho visto ed è stato amore a prima vista. Per chi si addentra per la prima volta nel magico mondo della Settima Arte, non può non rimanere ammaliato di fronte al cinema del regista texano. La sua estetica particolarissima ha, infatti, fatto la sua più grande fortuna, ma forse anche la sua rovina, dal momento che da The French Dispatch il suo cinema è pura maniera o, come dicono i giovani, puro flex.
Ma c’era un tempo in cui Wes Anderson univa perfettamente forma e sostanza grazie a uno stile, unico nel suo genere, che ha decostruito la commedia del XXI secolo, rifondandola completamente tra classicismo e postmoderno. Ciò che rende geniale il cinema di Wes Anderson, infatti, non è solo la sua particolarissima estetica, ma anche il modo in cui racconta per immagini una commedia: la recitazione non è più focalizzata solo sulle battute, ma sul modo in cui i corpi attoriali si muovono all’interno delle varie inquadrature geometricamente perfette, con l’obiettivo di creare un vero e proprio universo parallelo che esiste soltanto nella filmografia del celebre regista texano. Quello che ha realizzato Wes Anderson è un vero e proprio eden cinematografico, in cui solo lì i suoi bizzarri personaggi possono vivere all’infinito di film in film, come tutte le star che stravolge in tutto per tutto per adattarle al suo “cinematic universe“.
Ciò che rende rivoluzionario Wes Anderson, dunque, è quello di aver creato uno stile ex novo immediatamente riconoscibile, che fa sentire a casa tutti i cinefili e gli spettatori che amano il suo mondo fatto di geometrie perfette e colori pastello accesi. In questo senso, il regista è un vero e proprio pittore che ama giocare e sperimentare con le sue inquadrature e i corpi che le abitano. La sua vena sperimentale da “scienziato pazzo” del cinema l’ha portato anche a cimentarsi con l’animazione stop motion: il risultato è sorprendente per come sia perfettamente in linea con lo stile dei suoi film live action, anzi, è stato grazie al suo primo film animato, Fantastic Mr. Fox, che è riuscito ad affinare ancor di più il suo perfezionismo registico. Il suo stile eclettico l’ha infatti portato a realizzare, a mio giudizio, il miglior film stop motion della storia del cinema, L’isola dei cani, che ho potuto rivedere finalmente al cinema in tutta la sua potenza espressiva e immaginifica. Insomma, stiamo parlando di uno dei migliori registi del XXI secolo che, nonostante il suo recente declino, ha creato qualcosa di unico e irripetibile per le generazioni a venire, qualcosa che solo un genio dell’arte poteva realizzare, ossia un texano innamorato del cinema europeo e giapponese.

 

Grand Budapest Hotel rappresenta la summa di tutto questo suo percorso iniziato nel lontano 1996 con Bottle Rocket. L’aspetto più incredibile di questo capolavoro è la dolcezza e la leggerezza con cui il regista di Houston racconta la genesi, lo sviluppo e la morte di questo prestigioso hotel sorto nell’Europa Centrale nello stato fittizio di Zubrowka. Attraverso questo decadente edificio mitteleuropeo, Wes Anderson racconta tutte le vite che l’hanno abitato nella sua epoca di massimo splendore, gli anni trenta, centrando il suo punto di vista sul mitico concierge Monsieur Gustave – interpretato da un divino Ralph Fiennes nel suo ruolo della vita – accompagnato perennemente dal suo fidato assistente personale Zero Moustafa. Il duo attoriale che si viene a creare costituisce l’anima del film e dell’umanesimo wesandersoniano, che ha sempre creato personaggi bizzarri e outsider dall’animo puro alle prese con le folli vicende delle loro vite incasinate. Il film non segue una vera e propria trama, ma una serie di eventi “on the road” in cui il comico duo Gustave-Zero brilla all’interno di un mondo in guerra buio e violento, perché per Wes Anderson la gentilezza, la raffinatezza, l’innocenza e la bontà d’animo non potranno mai scomparire se le si coltivano ogni giorno. Gustave è infatti l’emblema della resilienza “civile”, un giglio nato nel cemento che non ha mai paura di difendere la dignità umana e le conquiste della civiltà come la virtù morale e il rispetto per il prossimo. Il custode del Grand Budapest Hotel rappresenta quindi l’umanità ideale che Wes Anderson difende in tutti i suoi film, ovvero quella piccola utopia che alla fine trionfa, e che permette ai personaggi più bizzarri di emergere e vivere la migliore delle loro vite. Nonostante ciò, la guerra, il nazismo e la malattia portano via a Zero – narratore della vita di Gustave e del Grand Budapest Hotel – le sue persone più care, negando in questo senso un vero lieto fine come accade, invece, in tutti gli altri film del regista. Da questo punto di vista è il film più dolente – insieme a The French Dispatch – di Wes Anderson, che pone, in apparenza, la sua magnum opus su un sentiero funereo con quel suo riflettere sul “confesso che ho vissuto… anche molto intensamente, con il corpo e con la mente, e adesso che molti di quei fuochi si sono spenti, è difficile abituarsi a sopravvivere sulle briciole di ciò che è stato”. Eppure, nella sua malinconia finale, il regista di Houston compie una magistrale riflessione sulla memoria, sulla guerra, sulla politica e sull’avidità umana attraverso un edificio, il Grand Budapest Hotel, custode dei migliori e peggiori ricordi di ognuno di noi, ergo, il mitico hotel mitteleuropeo non è altro che la vita stessa, nelle sue fortune e sfortune. Sta qui la grandezza di questo capolavoro: un’epopea agrodolce che racconta con profondità, leggerezza e comicità la vita tragicomica di due individui, Gustave e Zero, alle prese col mondo intero (splendida la scena iniziale e finale coi fascisti sul treno), che non sono altro che la più spontanea e bonaria espressione dell’umanità intera.

 

Grand Budapest Hotel è la quintessenza del cinema di Wes Anderson, il suo manifesto più politico e l’acme del suo estro artistico nella sua filmografia live action, dove non c’è soltanto un lavoro certosino nella scelta di ogni singola inquadratura, ma anche una gestione delle scenografie e degli effetti speciali che non ha nulla da invidiare ai migliori blockbuster action (si pensi all’incredibile segmento registico riguardante la battaglia con scii nel convento alpino).


Insomma, il regista texano è un genio che non smetterò mai di amare, e che insieme alle sorelle WachowskiTarantinoVilleneuve Wright è stato uno dei primissimi registi che mi ha introdotto nella profonda tana del bianconiglio della Settima Arte. Il mio auspicio, per il caro Wes, è che possa ritrovare quel magico equilibrio esteto-narrativo che l’ha reso così amato presso i cinefili. Ai posteri l’ardua sentenza.

 

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