Regia di Sam Peckinpah vedi scheda film
A vent'anni ricordo sensazioni sgradevoli: luci polverose che sembrano emesse da un sole malato; quelle pistole (le prime semiatomatiche) che non erano revolver, quei bambini brutti, sporchi, con i denti marciti e un ghigno alla vista di uno scorpione assalito da formiche rosse. Mio padre mi invitava a vederlo, ma io non volevo. Avevo il gusto troppo corrotto dall'estetica dei pur magnifici western classici americani, dalla dentatura falsa dei personaggi di Sergio Leone, quei denti perfetti, bianchissimi, che fanno il paio alla musica di Morricone, insistente come un coro celeste a un presepe di maniera. Solo più tardi imparai ad apprezzare una estetica che si stava imponendo con gli anni 70, dove la violenza è un gioco di potere al di là del bene e del male, in cui il grado di perversione è espresso da chi la esercita e sopratutto in nome di chi. È tutto nel dialogo tra Dutch (Ernest Borgnine) e Pike (William Holden), bloccati nella vallata messicana dai bounty killer capeggiati da Thornton. Dutch maledice quel Deke Thornton che non conosce, Pike lo giustifica col fatto che ha dato la sua parola (capeggia i bounty killer della ferrovia). «That ain't what counts! It's who you give it to!» (non è questo che conta, conta a chi l’ha data) risponde Dutch inferocito. Esistono due etiche contrapposte e negative, che stanno appena al di sotto di quella positiva assunta nella prima scena dalla Lega contro l’alcolismo. La prima è quella di Harrigan, rappresentante della ferrovia, disposto a spendere una fortuna pur di mettere le mani sul Mucchio, a costo di mettere a repentaglio le vite di innocenti. Rappresenta una Corporation in espansione, esaltata dall’applicazione commerciale dei progressi tecnici, il cui solo interesse è il profitto a cui tutto deve essere sacrificato, come un idolo pagano che prende le forme di un capitalismo benedetto dall’etica cristiana evangelica. A questa etica si oppone la seconda, quella anarchica del Mucchio. È un’opposizione etico-politica, che ha in sospetto qualunque archè colpevolizzante sostenuta da una sostanza metafisica, sia di matrice cristiana che di ordine sovrano, che in fondo finiscono per essere la stessa cosa. Ecco perché Harrigan li vuole morti, subito, di traverso sulle selle, usando Thornton (compagno di scorrerie del Mucchio prima di essere arrestato) come il suo personale Giuda capace di “tradire” Pike, e crocefiggerlo come lo fu Cristo (You're my Judas goat, Mr. Thornton). Il Mucchio si oppone alla mediazione burocratica nei rapporti tra gli uomini, regolati da sempre più stringenti vincoli contrattuali con valore legale. Qualunque potere è nemico del Mucchio, sia quello anonimo di una corporazione, o quello del patetico generale messicano (Emilio Fernández, alias Mapache) che usa la guerra contro Pancho Villa per immergersi in un’orgia fatta di violenza, sesso, sangue, sperma, negatività senza limite. In un mondo in cui le potenze mondane svelano la loro maschera di caprone (goat) dietro le parvenze di un ordine da assicurare con la violenza, il limite che si dà il Mucchio è il gruppo stesso. «When you side with a man, you stay with him. If you can't, you're an animal! You're finished! We're finished! All of us!». Pike è il migliore, non si è mai fatto beccare, e forse è proprio per questa aura di santità stracciona che la ferrovia lo vuole “crocefisso”. Se nell’orto del Getsemani per Cristo si pone l’enigma del permettere la propria crocefissione, del permettere cioè che le potenze di ordine negativo inizialmente prevalgano, Pike si concede al sacrificio di sé per essere fedele al principio trascendente da lui stesso enunciato, quello di non abbandonare alcun membro del Mucchio, che si abbia di fronte una pistola, un mitragliatore Gatling o un intero esercito. Rispettare questo principio è la sola via per essere certi di appartenere ancora al genere umano, di non essere animali, come lo sono diventati Harrigan e Mapache. «We all dream of being a child again. Even the worst of us» dirà Don Josè a Pike e Sykes. È l’epitaffio dei nostri eroi, la disillusione che non si può tornare bambini, cancellare la lavagna, trovare ristoro per la propria originaria ferita. A nulla vale la pausa nel villaggio di Angel, l’ospitalita di Don Josè, l’ultima notte passata con la ragazzina-puttana dalle pelle d’ambra e lo sguardo di pesca, che sembra offrire al gringo una nuova opportunità. Quella morte intorno alla quale - per gioco, dileggio o scommessa – si è sempre danzato, rappresenta la “verità”, quel ritorno all’inorganico che promette l’eliminazione di ogni sofferenza attraverso la prova di una sofferenza più grande. Ci sarebbero milioni di cose da aggiungere per un classico che non cessa mai di parlare a ogni generazione. Ad esempio il caso per il quale, dopo otto rifiuti di altrettante star, alla nona offerta fu William Holden ad accettare, permettendo al destino di divenire coproduttore e artefice di una delle più sorprendenti scelte autoriali della storia del cinema. Che dire della liaison omoerotica di Dutch nei confronti di Pike, piena di sguardi complici, di un tenero legame di sangue, al punto che – colpito a morte - l’ultima invocazione di Dutch sarà il nome dell’amato? Mi verrebbe da dire dell’uso della cinepresa nelle scene di violenza da parte di Peckinpah, di come la pone sulle traiettorie di impatto, come un corpo – il nostro di spettatori – trasportato dentro la scena, sulla loro stessa linea di tiro dei personaggi. E i bambini? Dove tutto è alla vista di tutti, i bambini sono dio e il diavolo, capaci di candore sul quale però ergere una caricatura adulta per non soffrire più la propria inermità (il colpo di grazia per Pike gli sarà inferto da un bambino travestito da soldato). Alla fine di tutto però, come la morte per i nostri eroi, per noi è giusto tornare a un capolavoro col silenzio, e al suo monito che non cesserà mai di essere udito da chi non si rassegna a tornare bambino, anche se fuori tempo massimo, anche se è il peggiore tra noi.
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