Espandi menu
cerca
M, il mostro di Düsseldorf

Regia di Fritz Lang vedi scheda film

Recensioni

L'autore

Letiv88

Letiv88

Iscritto dal 27 maggio 2019 Vai al suo profilo
  • Seguaci 10
  • Post -
  • Recensioni 99
  • Playlist 6
Mandagli un messaggio
Messaggio inviato!
Messaggio inviato!
chiudi

La recensione su M, il mostro di Düsseldorf

di Letiv88
9 stelle

Un film che resta impresso per come guarda negli occhi una città in crisi, senza filtri né scorciatoie. Ancora oggi, potente.

M – Il mostro di Düsseldorf (1931) non è soltanto un classico: è un film che ti entra addosso con una forza sorprendente, già dalle prime scene, e mantiene una tensione che senti ancora oggi. Fritz Lang costruisce un racconto che anticipa decenni di cinema, mescolando paura, controllo sociale e una città che perde progressivamente la bussola. Siamo nei primi anni del sonoro, ma la sicurezza con cui Lang gestisce immagini e suoni è talmente moderna che il film sembra arrivare da un’altra epoca, più vicina alla nostra che al 1931.

Düsseldorf è in pieno panico. Un assassino di bambine agisce senza lasciare tracce e la città precipita in un stato di sospetto permanente. Il commissario Lohmann (Otto Wernicke) è sotto pressione mentre indaga, ma ogni appiglio si sbriciola. Intanto il mondo criminale, esasperato dalle retate continue, decide di organizzare una propria caccia all’uomo. Hans Beckert (Peter Lorre) vaga inquieto tra strade e locali pubblici, tradito dal suo stesso fischio. Quando finalmente viene individuato, si scatena una caccia feroce che culmina in un “processo” improvvisato, dove la città arriva a giudicare l’uomo e se stessa.

Fritz Lang dirige con una sicurezza rara. “M” è anche il suo primo film sonoro, e il modo in cui sfrutta questa novità è sorprendente: silenzi che fanno più rumore delle parole, rumori che diventano segnali narrativi, voci che arrivano da fuori campo a creare un senso di costante allerta.

Il celebre fischio del killer è eseguito dallo stesso Lang, usato come marchio narrativo e detonatore di tensione. L’atmosfera non nasce da gesti teatrali, ma da dettagli: scale che risuonano, ombre che deformano gli spazi, strade che sembrano chiudersi addosso ai personaggi. Il montaggio parallelo tra polizia e criminali è una delle idee più forti del film, un modo per far vedere come la città intera stia reagendo allo stesso modo, indipendentemente dal lato della legge in cui si trova.

Lang e Thea von Harbou costruiscono una storia che non offre vie di fuga. La vera protagonista è la follia collettiva: una città che, nella paura, perde lucidità e diventa incapace di distinguere giustizia da vendetta.

La scrittura evita moralismi e ti costringe a restare dentro l’ambiguità. Il “processo” finale è uno dei momenti più forti: non è un tribunale, è un esercito di persone che hanno deciso di colmare il vuoto dello Stato, convinte che l’unico rimedio sia annientare ciò che temono. Il monologo di Beckert è ancora oggi uno dei vertici del cinema europeo: tormentato, scomodo, impossibile da dimenticare.

Peter Lorre è devastante. Il ruolo di Beckert era stato pensato per lui sin dall’inizio, e questa scelta si percepisce in ogni gesto: lo sguardo inquieto, la voce che vibra, la postura instabile. Non interpreta Beckert, lo vive. Ogni sguardo è un impulso malato, un’implosione continua. La sua voce, il modo in cui respira, la postura instabile: tutto contribuisce a creare un personaggio che inquieta non per ciò che fa, ma per ciò che è. La prova di Lorre è uno dei motivi principali per cui il film rimane così potente.

Otto Wernicke dà solidità al commissario Lohmann, uomo schiacciato dal caos e dalla pressione sociale. Attorno a loro, una galleria di volti reali, quasi rubati alla strada, che restituiscono la sensazione di una città davvero sull’orlo del collasso.

M – Il mostro di Düsseldorf nasce dal clima di paura che aveva travolto la Germania tra gli anni ’20 e l’inizio dei ’30, quando il paese si trovò a fare i conti con una serie di omicidi efferati che segnarono profondamente l’opinione pubblica. L’influenza più diretta è quella di Peter Kürten, chiamato dalla stampa “Il vampiro di Düsseldorf”. Operò tra il 1929 e il 1930, lasciando dietro di sé un’ondata di panico senza precedenti: giornali in prima pagina ogni giorno, quartieri in stato d’assedio, sospetti su chiunque. La caccia all’uomo durò mesi e mise in crisi le istituzioni. Fu catturato nel 1930 e processato nel 1931, proprio mentre Lang iniziava a lavorare al film.

Lang però non voleva rifare la cronaca di un solo caso. L’atmosfera del film nasce anche dal ricordo di altri due killer molto discussi negli stessi anni: Fritz Haarmann, soprannominato “Il macellaio di Hannover”, responsabile di diversi omicidi tra il 1918 e il 1924 e protagonista di un processo che scosse il paese, e Karl Denke, un altro assassino seriale scoperto nel 1924, che aveva lasciato dietro di sé registri dettagliati delle sue vittime. Questi casi alimentarono l’idea del “mostro nascosto tra la gente”, un uomo qualunque capace di confondersi nella vita quotidiana, concetto che Lang porta direttamente nel personaggio di Hans Beckert.

Il punto centrale dell’ispirazione, però, non è il singolo assassino: è la reazione incontrollata della città. A Düsseldorf, durante gli omicidi di Kürten, la popolazione era arrivata a segnalare centinaia di falsi sospetti, si temevano linciaggi improvvisi, e in più occasioni la polizia aveva bloccato interi quartieri per evitare che il panico degenerasse. Questo clima di tensione collettiva — fatto di paura, sospetto e rabbia — è ciò che Lang porta sullo schermo con maggiore forza: una comunità che perde lucidità, che non distingue più tra giustizia da vendetta e che è pronta a processare, condannare e punire nel momento stesso in cui trova un bersaglio. È qui che “M” trova il suo cuore più oscuro e ancora attuale.

M – Il mostro di Düsseldorf resta un punto fermo perché non si limita a raccontare un crimine: mette a nudo una società che si sfalda sotto la pressione della paura. Lang costruisce un film che vive di tensioni sottili, di sguardi, di silenzi che pesano più di qualsiasi scena mostrata. Non c’è mai compiacimento, mai una scorciatoia; c’è solo l’analisi implacabile di un ambiente che smette di ragionare e si affida all’istinto più brutale.

È questo che rende il film ancora vivo: la capacità di cogliere il momento in cui una comunità perde il controllo e si trasforma in un giudice feroce, pronta a trovare un colpevole pur di placare l’ansia. In mezzo a tutto questo, la figura di Beckert diventa il riflesso più inquietante: un uomo che non sa spiegare se stesso e che, proprio per questo, continua a restare impresso.

 

Ti è stata utile questa recensione? Utile per Per te?

Commenta

Avatar utente

Per poter commentare occorre aver fatto login.
Se non sei ancora iscritto Registrati