Regia di Zhang Yimou vedi scheda film
Sole e luna non splendono, la terra è scura;
il mondo delle donne è opprimente, chi può darci aiuto?
Ho dato in pegno spille e anelli per attraversare il mare;
ho lasciato la mia carne e il mio sangue alla Porta di giada;
slegami i piedi, che siano puri del veleno di mille anni!
Vi invoco di cuore: fiorite, bei fiori!
Che tristezza! Questo velo di seta è macchiato:
metà sono tracce del mio sangue, metà delle mie lacrime
(Qiu Jin, «You huai») [ 1 ]
Così è il destino di ogni donna. Come dice la protagonista nell’incipit, folgorante: un primo piano della giovane Songlian (Gong Li) che si lascia sfuggire una lacrima mentre immagina la sua triste sorte futura. E’ cambiata un’epoca eppure al fondo quasi nulla è mutato.
Lanterne rosse (1991): scena
La Cina dei primi decenni del ‘900 è un Paese in fermento dove si agitano idee nuove, rivoluzionarie (con le punte dei primi movimenti femministi e del movimento detto «Nuova Cultura» a partire dal 1915, guidato da intellettuali anticonformisti quali Chen Duxiu che rifiutano in toto gli antichi valori confuciani, considerati corresponsabili dell’arretratezza sul piano politico, economico, sociale, culturale della Cina del tempo).
Ma, si sa, certi cambiamenti richiedono tempi lunghi e ancora al giorno d’oggi – specialmente nelle aree rurali – e nonostante gli indubbi passi avanti, si praticano ancora talora aborti mirati, infanticidi selettivi (delle femmine), abbandono delle nasciture e in generale le ragazze sono ancora viste come un peso.
Lanterne rosse ci mostra e soprattutto ci fa sperimentare a livello emotivo l’asfissiante cappa che incombe su queste donne mantenendo l’unità di luogo (la residenza Chen), non molto diversa da una prigione. La protagonista vive la sua condizione ancor più amaramente perché ha avuto la possibilità di studiare, mentre si ritrova ora sequestrata in un ambito di oppressione arcaica.
Lanterne rosse (1991): He Saifei
Essendo ambientato dopo la caduta dei Qing e l’avvento della repubblica, il film rivela la persistenza di stereotipi e pratiche di esclusione millenarie anche nel nuovo contesto, peraltro – anche se può apparire strano a dirsi – meno annichilente di quelli precedenti.
Difatti, per quasi mille anni, l’oppressione delle donne fu ancor più inflessibile e brutale, col ricorso sistematico ad una tremenda pratica di costrizione fisica: la fasciatura dei piedi, che viene infine proibita soltanto nel 1902 nell’ambito della «Nuova Politica» perseguita dall’ultima dinastia imperiale agli sgoccioli per cercare di prevenire il disfacimento dell’impero stesso. Tramite la fasciatura, che causava dolori atroci, le donne erano quasi impedite nel movimento, confinate quindi ancor più rigidamente entro le mura domestiche, educate alla castità, al rispetto di gerarchie e tradizioni e condannate ad una vita senza sbocchi il cui unico scopo agli occhi della società era il metter a mondo figli, maschi, ca va sans dire (perché le femmine, appunto, per la maggior parte «non servono a niente», come afferma la seconda moglie).
Lo scoramento di innumerevoli donne si riflette nelle vicende di Songlian: al suo ventesimo compleanno le pare che la sua vita sia già in sostanza finita, tutta ridotta a quello, al ruolo di concubina e genitrice futura, privata di qualunque possibilità di perseguire i propri interessi e di ascendere nella scala sociale.
Lanterne rosse (1991): Gong Li, He Saifei, Cao Cuifen
Giunge persino a considerare la morte preferibile a tal vivere e – dinnanzi a quella che vede come una terribile colpa nel suo aver contribuito ad una sorte impietosa – perderà infine il senno, com’era forse inevitabile data la definitiva assunzione di consapevolezza – nella magistrale sequenza immersa nel rosso nella casa della terza moglie – di una situazione che non può esser modificata (e, inoltre, in qualche modo, con lo scivolamento nella pazzia si sottrae al defatigante macabro gioco tra donne relegate nella cornice opprimente di un ordine gerarchico maschilista onnipervasivo e “invisibile”, simboleggiato dalle quattro mura dell’ampia dimora e dal padrone che si sceglie – brillantemente – di non far vedere mai chiaramente in volto).
Tutto ciò è raccontato nel film col ricorso ad una tecnica controllatissima – con inquadrature geometriche spesso fisse e prolungate (sovente dei piccoli quadri filmati di grande splendore formale) – talvolta apparentemente gelida (salvo negli intensissimi primi piani), talvolta aperta a invenzioni quasi oniriche (quando la terza moglie canta e danza da sola e il figlio del padrone suona il flauto) che – grazie ad una raffinata opera di scavo psicologico – permette di far emergere a tratti in tutta la loro dirompenza i sentimenti e le passioni di queste donne ingabbiate che finiscono per scontarsi fra loro, in un logorante balletto di odii, piccole vendette e meschinità, tra chi tale condizione accetta ed anzi abbraccia (la seconda moglie), chi ormai ha perso qualunque impeto (la prima moglie) e chi non riesce a rassegnarsi, almeno all’inizio (la protagonista e la terza moglie).
Lo stile adottato si rivela dunque il più idoneo a restituire «con la sua angosciante ieraticità i rituali di un universo chiuso e soffocante» che pone la giovane Songlian dinnanzi all’evidenza di «quanto peso abbiano ancora la tradizione e le “leggi della casa”, capaci di vincere su tutto, anche sulla vita» (Mereghetti).
Lanterne rosse (1991): Gong Li
All’analisi delle rigide divisioni nei ruoli tra sessi corrisponde un’altrettanto lucida disamina dei rapporti di classe, con la tragica parabola della servetta Yan’er, usata come una pedina (prima dal padrone che di lei s’approfitta, poi dalla seconda moglie per andar contro alla quarta moglie) e che non trova alcuna pietà neanche in Songlian (per quanto quest’ultima si dispiaccia a posteriori). L’anziana governante l’ammonisce di non ricercare più di ciò che può aspettarsi di ottenere, ovvero il rimanere una serva a vita, rievocando l’idea che ci sia chi è nato per essere servo (o schiavo). Un immaginario privo d’ogni compassione e che giustifica i peggio soprusi.
Ancora una volta, come per Songlian, la rivolta o quantomeno il tentativo di emancipazione, non può avere successo se rimane individuale. Devono maturare le condizioni oggettive, si devono avere delle solide fondamenta collettive, ma soprattutto si deve avere un’idea del dopo, di dove si voglia condurre la lotta oltre la soddisfazione individuale (per quanto importante). Invece, di nuovo, in questo mondo chiuso che pare costruito appositamente per svilire e annullare ogni slancio vitale e intellettuale, non c’è via di scampo.
L’inesorabile logica d’un potere che affonda le proprie radici in consuetudine plurisecolari e che pervade financo le più quotidiane delle azioni, pare inscalfibile. E alla fine trionfa in uno scenario quasi incantato, cosparso del bianco candore della neve, pervaso da un silenzio irreale che si squarcia solo col grido disperato di una donna che ha perso oramai ogni speranza.
«Quarta sorella, tu sei nuova qui e il padrone non è stanco di te. Ma sappi che se tarderai troppo a dargli un figlio, ci saranno momenti molto difficili. Tu sei una studentessa e io una cantante, due donne diverse. E un solo destino».
Lanterne rosse (1991): scena
[ 1 ] In K. Vogelsang, Cina. Una storia millenaria, Torino, Einaudi, p. 435. In inglese la poesia è nota come «Filled With Emotion (Written During My Stay in Japan)». Qiu Jin (1875-1907) è stata una poetessa, femminista e rivoluzionaria cinese, che lasciò figli e marito per andare in Giappone e poi unirsi ad una delle tante organizzazioni anti-mancesi lì presenti, infine confluite nella Lega giurata di Sun Yat-sen nel 1905.
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