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Il cameraman e l'assassino

Regia di Rémy Belvaux vedi scheda film

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La recensione su Il cameraman e l'assassino

di Qualcunocheadorailcinema
4 stelle

Una troupe televisiva è alle prese con la realizzazione di un documentario su Ben, un serial killer che uccide per passione e con un certo compiacimento. Inizialmente spettatori neutrali, i membri della troupe si ritrovano a diventare complici attivi dei delitti dell'assassino, culminando in un tragico epilogo.

 

 

 

In tre si sono messi a scrivere e anche a dirigere questo strampalato mockumentary che, teoricamente, dovrebbe seguire in diretta le gesta di uno spietato serial killer, ma che in realtà fatica assai a sostenere il ritmo e a sviluppare una trama coerente. L’idea di base, sulla carta, poteva risultare intrigante: mescolare la cronaca nera con il linguaggio documentaristico, offrendo una sorta di “realtà aumentata” dello psicopatico in azione, e sfruttare il finto realismo per gettare lo spettatore in una zona scomoda, a metà tra voyeurismo e complicità. Tuttavia, ciò che poteva essere un esperimento disturbante e corrosivo, si riduce spesso a un esercizio di stile poco controllato, che alterna momenti di discreta tensione a lunghe sequenze ridondanti e poco incisive.

 

A differenza di altri prodotti notevoli come Angst di Gerald Kargl o Schramm di Jörg Buttgereit, in cui la psiche malata e depravata dell’assassino viene scandagliata con rigore quasi ossessivo e con una ricerca formale che non lascia scampo, qui il protagonista appare più come una caricatura che come un vero “mostro interiore”. Certo, non mancano episodi scioccanti, ma la caratterizzazione rimane abbozzata, frammentaria, incapace di restituire davvero quella sensazione di follia incombente che altri film hanno saputo comunicare con ben maggiore potenza. Lo spettatore si trova così davanti a un personaggio che vorrebbe essere disturbante e, insieme, ironico, ma che finisce per risultare più fastidioso che inquietante.

 

Il problema principale è che il film non riesce a bilanciare le sue anime. Da un lato si propone come una critica al sensazionalismo dei media, mostrando come la troupe che segue l’assassino finisca gradualmente per farsi complice delle sue azioni; dall’altro, però, indulge in momenti di grottesco che paiono più improvvisati che pensati. L’umorismo nero, che dovrebbe fungere da contrappunto alla violenza, spesso si spegne in gag stiracchiate o in provocazioni fini a sé stesse, tanto da sembrare più un tentativo di scandalizzare lo spettatore a tutti i costi che non una riflessione autentica sul rapporto tra violenza, spettacolo e società. Ne risulta un’opera che oscilla continuamente tra serietà e farsa, senza mai trovare un equilibrio stabile.

 

Lo stile registico, volutamente grezzo, con camera a mano e montaggio discontinuo, vorrebbe dare l’impressione di immediatezza e realismo, ma col passare dei minuti questa scelta diventa ripetitiva e prevedibile. Ciò che inizialmente poteva sembrare una trovata originale, capace di aumentare l’impatto delle sequenze più crude, finisce per appiattire il ritmo e affaticare la visione. Persino le scene di violenza, che dovrebbero rappresentare il cuore pulsante del film, non raggiungono mai la forza disturbante di titoli analoghi: mancano sia la precisione chirurgica di Angst, sia l’intensità malsana di Schramm. Tutto appare smorzato, come se la ricerca del paradosso comico avesse svuotato di energia il lato orrorifico.

 

Eppure, va riconosciuto che Man Bites Dog ha avuto un suo ruolo nel panorama del cinema indipendente europeo dei primi anni ’90. Il film, girato con mezzi ridotti e un approccio sperimentale, cercava di spingersi oltre i confini del cinema di genere, flirtando con il cinema politico e con il linguaggio del reportage televisivo. In alcuni momenti, soprattutto quando mette in luce la progressiva corruzione morale della troupe, riesce anche a centrare il bersaglio, sollevando interrogativi tutt’altro che banali: fino a che punto siamo disposti a guardare senza intervenire? Quanto siamo complici, come spettatori, della violenza che consumiamo sullo schermo? Sono spunti interessanti, che tuttavia restano soffocati da un’esecuzione irregolare e da un tono che non trova mai la giusta direzione.

 

Nel complesso, Man Bites Dog rimane più un curioso esperimento che un film realmente riuscito. È un’opera che ha fatto parlare di sé per la sua audacia e per l’idea alla base, ma che rivista oggi mostra tutti i suoi limiti: un eccesso di autocompiacimento, un’ironia spesso forzata, una violenza che non riesce né a scioccare davvero né a raccontare qualcosa di nuovo. Invece di scendere negli abissi della mente umana, come accade in Angst o Schramm, il film si limita a grattarne la superficie, accontentandosi di scandalizzare senza approfondire. Un’occasione sprecata, insomma, che lascia il ricordo di un prodotto più furbo che genuinamente disturbante.

Eppure questo filmetto rimane ancora parecchio osannato da pubblico e persino da critica. Bah...

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