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Nuestra Tierra

Regia di Lucrecia Martel vedi scheda film

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La recensione su Nuestra Tierra

di EightAndHalf
7 stelle

Se esiste (ed esiste) una categoria del cinema che tratta del post-colonialismo in una chiave né etnografica né da cinema di exploitation, allora quel cinema non si è mai incrociato col doc crime (ma se qualcuno conosce un precedente alzi la mano). È un rischio di sfruttamento ulteriore, l’utilizzo di un formato canonizzato a tal punto, popolazione affollata delle piattaforme streaming e non solo, con crimini reali di cronaca nera rivisti, rianalizzati, risvelati. Sembra di risentire Julia Roberts in After The Hunt di Luca Guadagnino (Fuori Concorso a Venezia 82 esattamente come questo Nuestra tierra), quando redarguisce la sua studentessa dal vendere la sua indignazione politica a una giornalista che vuole solo lucrare su quel sentimento, perché si è sempre a un passo dall’exploitation, dal ri-uso immorale che usa l’alibi della necessità dell’informazione per la sensazione. Tutti questi ragionamenti sembrano attraversare questo attesissimo nuovo film della regista argentina Lucrecia Martel (noto come Chocobar negli ultimi anni, quando si aspettava venisse completato e finalmente selezionato in un grande festival), perché il fatto che al centro ci sia un caso di cronaca, quello dell’omicidio del leader indigeno Javier Chocobar, ucciso da tre uomini argentini venuti in sospetta esplorazione della terra indigena dei Chuschagasta nel 2000, è motivo di credere che il film si concentri sul meccanismo del processo di tribunale, sulle peregrinazioni argomentative degli avvocati di entrambe le parti, sugli interrogatori dei giudici. In realtà il film contamina quel linguaggio, non solo formalmente (tanti primi piani, l’aula di tribunale non è mai davvero un’arena ma è volutamente mostrata, in poche occasioni, come la piccola saletta che era davvero) ma anche concettualmente, deviando sulla storia privata di alcuni dei Chuschagasta, e quindi sul cumulo di ritratti veri, capaci di storicizzare i motivi dietro l’omicidio. L'avvocato della difesa richiama sull’attenti dopo i primi ritratti: non sarebbero parti dell’indagine, e la realizzazione dello stesso documentario starebbe rischiando di trasformare il processo in un circo. E invece Martel, in mirabile e prudente contrappunto, dimostra il contrario: il processo non è un circo – quanta giusta distanza in tutto il montaggio del film – e l’omicidio di Chocobar non è scindibile da una storia più ampia, da un paesaggio diverso, mai contenibile in una sola inquadratura, mai burocratizzabile come vorrebbe il potere coloniale (l’artefice di una Storia che un intellettuale, nel film, definisce giustamente come “sempre falsa”, ovverossia raccontata solo dai potenti e dettata da sistematiche rimozioni). Una storia (e una terra) mai colonizzabile davvero se non col sangue; difesa a spada tratta, a parole, con le mani, e da un gabbiano che butta giù uno dei droni che ci fanno affacciare sulla vastità delle lande argentine. Cinema militante che non urla, atto essenziale di messa in scena, e inevitabile ricerca sul ruolo documentale delle immagini, delle documentazioni, dei racconti di cronaca. Lucido sicuramente, ma anche, detto alla Nanni Moretti, “certamente non imparziale”.

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