Regia di Kaouther Ben Hania vedi scheda film
“The Voice of Hind Rajab” si presenta come una spiazzante ibridazione modellata sulle geometrie del docudrama, andando ad occupare una stilistica terra di nessuno nella quale – non sorprendentemente – stentano a funzionare sia il flebile lato documentaristico che la predominante fiction, estremamente limitata nella propria (in)capacità di trasformazione e rielaborazione del soggetto.
Fondare l’intera costruzione narrativa sulla straziante registrazione della richiesta di soccorso da parte della piccola Hind Rajab - intrappolata in un’auto-cimitero a Gaza sotto una pioggia di proiettili - non è sufficiente ad esaurire un film nella sua globalità, soprattutto se quest’ultimo si limita al dispiegamento delle proprie intenzioni mostrando - in maniera del tutto ordinaria e didascalica - un corollario di situazioni e personaggi orientati unicamente nella direzione di rimpinguare il pathos degli scambi telefonici, dimenticando completamente di costruire un esoscheletro drammatico che li sorregga.
La questione morale - ampiamente dibattuta - in merito alla liceità, o meno, di utilizzare l’incisione audio originale della voce della bambina, realizza la propria evidenza non appena appare chiaro quanto questa non contribuisca in nessun modo ad arricchire l’opera, facendone solamente un vessillo da sbandierare.
La narrazione procede come un’encefalogramma piatto in cui non balenano picchi, per (de)merito di lacrimanti (e lacrimevoli) primi piani a camera fissa sui volti dei soccorritori alternati a nervose riprese con camera a mano, a definizione di un comparto registico che sfiora i limiti dell’amatorialità. Non giunge in supporto un montaggio blando, mai in grado di costruire la tensione così come un ritmo che sappia scandire il corretto fluire del tempo, lasciando lo spettatore perennemente disorientato. In ultimo, la totale povertà scenografica, costumistica e fotografica restituiscono un valore cinematografico complessivo pressoché nullo.
Totalmente assente è poi il lavoro di preparazione al dramma, di stratificazione dei caratteri: nessun flashback o preambolo contribuisce a dare concreta forma alla voce della bambina o uno spessore ai componenti del centralino, che rimangono totali sconosciuti unicamente intenti a prodigarsi in urla, pianti e svenimenti, finendo per allontanare prepotentemente ogni genere di coinvolgimento autentico. Gli interpreti risultano incastrati in performance forzate, perennemente sopra le righe, in un registro pienamente comprensibile nella realtà vissuta dai veri operatori della Mezzaluna Rossa, ma inapplicabile - senza suscitare perplessità - in un lungometraggio dichiaratamente di finzione.
Al placarsi dell’indotta tormenta emotiva, rimane solo un inafferrabile pulviscolo di sensazioni, figlie dell’esposizione alla perpetua reiterazione di uno strazio disadorno dal minimo apporto artistico, mero descrittore di eventi che avrebbero trovato maggior giustizia in un documentario (con pubblico e incassi inferiori) alternativamente ad un film di fiction fatto e finito, per la quale realizzazione, evidentemente, la regista non aveva a disposizione né la volontà né gli strumenti necessari.
L’urgenza di fornire al grande pubblico un (altro) palpabile riscontro di un dramma che si rinnova quotidianamente è pienamente condivisibile solamente nei propositi, e rappresenta una grande occasione mancata di colmare la distanza fisica tra i popoli accomunandone l’umanità, scavando nelle ferite di uomini e donne che anche remando nella medesima direzione si ritrovano spesso vittime dell’assurdità della guerra, vincolati alla necessità di mantenere un contatto con chi ti uccide su un fronte, per tentare di salvare vite su un altro.
La scelta di inserire, sul finale, le immagini reali della tragedia, mina definitivamente la coerenza interna, tradendo quella strenua volontà di costruire e trasmettere l’orrore senza mai mostrarlo, in quello che in definitiva è un’impersonale, scaltra e debolmente genuina pellicola, che sacrifica ogni elemento filmico sull’altare dell’impatto mediatico.
Quello che resta è il vuoto incolmabile delle esistenze spezzate, il grido disperato di una bambina innocente che – come ogni altro essere umano – è nata per vivere libera e non nel terrore di subire la spietata imposizione di chi, accecato da un odio insensato, si arroga il diritto di spegnere vite, trattandole come pedine inanimate di un perverso gioco di potere e sopraffazione; un vuoto che avrebbe potuto diventare il cuore pulsante di un’opera capace di scuotere le coscienze, ma che rimane sospeso, tristemente destinato a dissolversi senza lasciare traccia.
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