Regia di Mark Jenkin vedi scheda film
Una barca appare nel porticciolo di un misterioso villaggio britannico. Offre lavoro, e quindi quale migliore occasione per Nick e Liam per salirci e avventurarsi in sessioni estenuanti di pesca per guadagnare qualche soldo stipando la stiva e nutrendo il villaggio. Eppure anche prima di partire sembra che il mondo stia allestendo una nuova uncanny valley: un buco nel tetto di una casa, una bambola strana, delle corde che si avvolgono, una signora anziana che si imbambola di fronte alla porta di casa anche se sta piovendo. L’atmosfera si contrae e rilascia, riempendo di singhiozzi gli eventi lineari: è l’idea di normalità in cui vivono queste creature, o c’è una quotidianità che si sta per frantumare anche per loro? Mark Jenkin usa la pellicola come matrice di quell’operazione di straniamento che regola tutto Rose of Nevada - immagini tattili di cose che si muovono fuori dalla logica fisica, la sola apparenza di poter ‘sentire’ quando anche solo il presupposto dell’esserci o non esserci di qualcosa viene meno - creando un territorio del possibile perturbante. I personaggi si costringono alla ritualità sfiancante delle operazioni di pesca e intanto il mondo è sempre meno rituale, la cricca si apre, il buco nel tetto del film si allarga, lo spazio tempo si confonde con piccole frantumazioni, e ci si perde. Anche se non abbastanza, perché poi il film spiega, aggancia le parti (o quasi), definisce il dramma, e nell’ultima mezz’ora si rischia che l’irripetibile diventi solo un nuovo rituale. L’importante però è la prima ora e mezza: montaggio ellittico, ritmo altro e severo, piccoli shock su cose inoffensive, da lasciar di pietra.
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