Regia di Michael Moore vedi scheda film
Dai brogli elettorali che permisero a Bush jr. di vincer le elezioni, alla guerra in Iraq, passando per il maxi attentato alle torri gemelle dell’11 settembre 2001.
L’America non è più la stessa.
A Michael Moore andrebbe eretto un monumento, per il primo documentarista americano che è riuscito a parlare di una situazione mondiale tragica, solo a tratti confacenti l’America stato, un paese governato in un modo perfettamente indifferente, che lascia libero sfogo a tutti i suoi cittadini, a tutte le buone o brutte idee che siano, degli stessi. È tragicomico osservare un presidente USA leggere una favola su di una pecorella a dei bambini di un asilo statunitense, mentre in contemporanea le torri crollano, assieme al loro tragico bilancio di vittime, morte nei modi più svariati… Ci fa riflettere su quanto l’idea di pace si configuri nell’uomo più famoso del mondo che gioca a golf predicando la pace nel continente nero, l’Iraq, da dove giunge violenza? Morte e distruzione? Certo, la loro distruzione, la distruzione degli innocenti.
Il fatto che un ottimo documentario come questo, vinca la Palma d’Oro al Festival di Cannes, non ci deve stupire più di tanto, oltre ad essere il miglior documentario dell’anno, è probabilmente anche uno dei migliori film di questa stagione cinematografica appena incominciata. Michael Moore pianifica, fin eccessivamente, la sua opera di denuncia socio politica, saltella qua e la, tra cafonerie del presidente, e disperazioni di non presidenti, di gente comune, ci si trova così davanti a un riquadro straziante, di parole strazianti, di pensieri strazianti, in uno stato straziante. È appunto il didascalismo, spesso conseguente della troppa costruzione, a gravare a volte sulla piacevolezza del comunque grande documentario di Moore. “Fahrenheit 9/11” è in confronto a “Bowling for Colombine”, molto più statistico, ferreo, gravoso, i numeri qui non lasciano via di scampo, i fatti del mondo non ce ne lasciavano già da tempo, la speranza non manca, ma qui tutto deve cambiare. E non è facile, un uomo non smuove il sistema, ci vuole un unione massimale per capire e attuare, Moore l’ha permesso, ha usato al meglio la settima arte per fare ciò, ha ottenuto una Palma d’Oro di certo all’insegna della politica che propone il suo film, ma se questo servirà a non rieleggere uno tra i più grandi farabutti mascherati della storia americana, ben venga.
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