Regia di Roger Avary vedi scheda film
E’ arrivato il capolavoro. A due anni dall’uscita inglese, la nostra distribuzione si è accorta che questa pregiata opera del pregiato Roger Avary (co-sceneggiatore Premio Oscar di Pulp Fiction e lontano dagli schermi dai tempi di Killing Zoe) non meritava un trattamento da fondo di magazzino (si pensava addirittura di farlo uscire al cinema - se non direttamente in dvd - in piena estate col risibile titoletto Animal College). Eccolo, allora. Pur se tagliuzzato qua e là e con dei titoli di testa che dicono “Avery” e non Avary, Le regole dell’attrazione esce finalmente a marzo e rimane un’opera esemplare, le pietra tombale sui teencollegemovies (sintomatico che il protagonista sia il Dawson di Dawson’s Creek). La fine di un genere. Chissà, forse l’inizio di un altro. Trama? La vita intrecciata di alcuni studenti del Camden College, piccola università del New England frequentata da rampolli “bene”: Sean (James Van Der Breek), che spaccia droga e riceve missive da una misteriosa fan; Lauren (Shannyn Sossamon), che rifiuta di concedersi per aspettare il ritorno dall’Europa di Victor; Paul (Ian Somerhalder), gay alla ricerca di un compagno. Nessuno riuscirà a trovare e ad amare nessuno.
Il lavoro fatto da Avary sull’ostico e refrattario romanzo omonimo di Bret Easton Ellis (American Psyco) è straordinario. Le pagine si fanno visione così viva, ricca, eccessiva e rischiosa che l’occhio stenta a tener passo alla mente. Regia audace (split-screen, accelerazioni e riavvolgimenti rapidi della pellicola), motivi evidenti: il mondo descritto è tutto di pensieri riposti nel luogo sbagliato, l’attenzione (emotiva, sessuale, affettiva) è sempre per la persona estranea, magari con quella giusta a due passi, così l’affresco di questo mondo si scompone come un puzzle che cerca il suo tassello avanti e indietro e spera sempre di trovare quello con cui combaciare. Niente da fare. Benvenuta solitudine. Un film raggelante e impeccabile sulla complessità reale del linguaggio e delle voglie di una generazione non lineare, in costante disequilibrio (il libro è ambientato negli ’80, il film ai giorni nostri: tutto è uguale a prima, la Storia aggiusta il tiro ma si ripete sempre). L’horror vacui fatto carne e celluloide. Un film straordinario sulla mancanza di qualsiasi idoneità nei rapporti umani, sull’imprecisione dei criteri (di scelta) sessuali, sullo svilimento di un semplice contatto. Mai compiacente o compiaciuto, opportunamente nichilista in tale e tanta presa d’atto di simile squallore (neanche i grandi sono indenni: eccezionale Faye Dunaway, nel ruolo della madre di Paul, che passa il tempo a godersi cocktail con le amiche a base di alcool e droghe), senza alcuna preferenza per nessuno dei protagonisti di questa isola infelice alla deriva del solipsismo. Attori eccelsi in bilico tra effimero, orgasmo e depressione suicida. L’unica vera, cruda, dura, allucinante e allucinata opera di questi tristi anni sugli adolescenti di ieri e di oggi capace di non tirarsi indietro di fronte ad una evidenza lampante: il giovane, a furia di desiderare, è morto e sepolto. Ripeto: un cult.
Francesco de Belvis
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