Regia di Werner Herzog vedi scheda film
Sull’altopiano della Fonte della Vita in Angola, coacervo di fiumi e sorgenti d’acqua nel sud del continente africano, si vocifera (e si testimonia empiricamente) che ci siano le ultime specie di elefanti giganti, i più grandi mammiferi della Terra, discendenti di quell’elefante Smithsonian alto metri e metri e cacciato e ucciso nel 1955, oggi esposto a Washington DC. Regni e tribù stanno alla guardia di questo patrimonio della fauna mondiale e compiono riti apotropaici immaginando che l’anima di antichi elefanti si impossessi dei loro corpi, una natura fantasmatica che ben si collega alla loro invisibilità e imprendibilità. Werner Herzog - per mezzo si spera dei suoi operatori di camera vista la natura del viaggio - si mette sulle tracce di queste creature ancestrali attraverso le indagini e i viaggi del biologo Steve Boyes insieme a due antropologhi e a un gruppo di “mastri tracciatori”, in grado di intuire dimensioni e mandrie dalle tracce nel terreno o dai segni sugli alberi.
Il miracolo dei documentari di Werner Herzog è quello di incrociare scienza e mito come se fossero una cosa sola e indissolubile - la scienza non preclude l’emotività e il gusto per il mistero, il mito segue rituali precisi e geometrici. Così i suoi film sono ricerca universitaria ma anche puro fascino affabulatorio, ambizione algebrica da un lato - c’è un rigore di messa in scena che richiede sicuramente grande programmazione - e girotondo esorcistico e liberatorio fra volti, lingue e suoni lontani dall’altro. La voce fuoricampo del regista tedesco infila domande presuntamente prosaiche a fronte di grandi interrogativi ecologici e genetici (“ma cosa dirà mai degli esseri umani una storia di elefanti?”, “guardate che bello stare ad accordare questo strano strumento musicale in mezzo alle galline”) dimostrando con quanta ironia si possa ragionare sull’umanità, sulla vita e tutto il resto, e sfruttando la produzione National Geopraphic per un documentario che pare solo flirtare con i formati più canonici alla Richard Attenborough e invece attraversa con leggerezza tutti gli incontri, i momenti di riflessione, le meditazioni, senza alcuna retorica (benché con chiari messaggi di rispetto della natura da parte dell’uomo cacciatore e distruttore) e con grazia inesauribile.
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