Regia di Paolo Sorrentino vedi scheda film
“La politica… è una discoteca” lo diceva l’ufficiale governativo De Roller in Pacifiction di Albert Serra, mentre i potenti francesi in trasferta polinesiana si illanguidivano flaccidi in bettole esotiche e covi di complottismi. Quindi anche la Costituzione italiana potrebbe essere letta a ritmo da discoteca, facendo un’agile estensione del concetto. Basta darle il giusto respiro, una frase alla volta, magari attraverso delle didascalie sul cielo mentre le frecce tricolore coprono l’azzurro col bianco, il verde e il rosso. È l’incipit danzerino straripante di una storia di grazia, firmata dal regista delle grandi bellezze, Paolo Sorrentino. La domanda è però in che senso si intenda “grazia”: la grazia è quella che potrebbe concedere il Presidente della Repubblica Mariano De Santis (Toni Servillo) ad alcuni carcerati; è quella del “porre fine” alla vita (in una nuova legge italiana sull’eutanasia che lo stesso presidente deve decidere se firmare o meno); è quella dell’eleganza del movimento, della ieraticità dei gesti, della sensibilità oltre le sbarre della necessità politica. È quella che interviene in senilità per sostituire la passione, quella che il tempo fa inevitabilmente sfumare via. “Sensibilità” è sicuramente la parola preferita di Paolo Sorrentino (era anche della voce fuoricampo di Jep Gambardella, mentre ballava una poco aggraziata Mueve la colita nel 2013), ed è denunciata come persistente, nonostante le formalità, dal generale che fiancheggia il Presidente De Santis in una delle scene finali del film. La “sensibilità” persiste anche quando la si ingabbia nell’imperativo dell’eleganza istituzionale, per non scordarsi di essere umani anche se il nomignolo che ci hanno affibbiato è quello grigissimo di “Cemento Armato”. Sorrentino la cerca, la trova (o si convince di trovarla), ce la illustra, questa grazia, e purtroppo la ingabbia anche lui, stavolta non in una necessità istituzionale ma in un’inevitabilità manierista. Benché La grazia sia uno sforzo nel tentativo di far evolvere alcune delle caratteristiche più ricorrenti della scrittura sorrentiniana (l’aneddotica, le scene madri, la logica accumulativa delle apparizioni e delle folgorazioni, l’eterno ritorno di frasi ed eventi), il film rischia di ridursi a esercizio o allenamento per vedere se quella grazia possa fuoriuscire nonostante la maggioranza delle scene siano in interni, nonostante sotterfugi narrativi che ormai da più di un decennio in Sorrentino paiono soprattutto struttura, meccanismo, gerarchizzazione emotiva. Un tassello dopo l’altro, La grazia sbircia nelle ansie prosaiche di un importante uomo annoiato (il rapporto con la figlia, il ricordo della moglie morta), e lo fa con l’artificio tipico del regista partenopeo, un artificio che più spesso si spera possa generare emozioni ed esperienze variegate, e che invece ripiega sul rischio paradossale dell’aritmetica, del calcolo prevedibile di scrittura. Tutto piacevole, confortevole, ballerino, divertente a volte (sia nei termini della grande commedia di caratteristi, sia nei termini di una più liquida memestetica), ma con poco da dire sui fattacci etici che racconta, e ben lontano dalle montagne russe che da Sorrentino potremmo aspettarci. Allarme, ma non ci impressioniamo: è un suo film minore.
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