Regia di Chan-wook Park vedi scheda film
Come costringere lo spettatore ad empatizzare con un assassino: lezione del maestro Park Chan-wook.
È inutile girarci intorno, chi è che durante il film ha pensato anche solo una volta: “questo Man-soo è un pazzo criminale”? Nessuno.
Eppure Man-soo è un pazzo criminale. Però il capitalismo è brutto e le grandi aziende sono cattive. Però lui ha la faccia simpatica e lo fa anche per la famiglia. Però quei cagnoloni devono tornare a casa.
Così la regia di Park diventa la molletta dorata che tappa il naso e non fa sentire la puzza dei cadaveri; diventa la benda di seta che copre gli occhi e non fa vedere i corpi martoriati; diventa la musica che non fa sentire le urla disperate di chi sta per essere ucciso.
Per ottenere questo effetto, il regista coreano ha dovuto nascondere il dramma sotto il tappeto (o sotto le foglie autunnali se preferite), dando alla storia quella patina grottesca che permette a chi guarda di fare il tifo per il protagonista, senza concentrarsi troppo sul cosa sta succedendo ma focalizzando l’attenzione sul come sta succedendo.
Il rischio in questo tipo di approccio poteva essere quello di togliere forza alla tematica trattata, ma Park è come un fiorettista, quando sembra inoffensivo mette a segno le stoccate migliori, solitamente all’ultimo secondo. No Other Choice non fa eccezione.
Certo, per il pubblico internazionale è più facile vedere in questa satira per immagini un mezzo per dare rilevanza ad un concetto, anche perché la Corea è lontana e possiamo ridere senza sentirci chiamati in causa. E poi, come ha detto la signora seduta dietro di me in sala durante l’anteprima: “i coreani hanno una faccia simpatica”. Beh, signora mia, saranno felici di saperlo.
Per il pubblico coreano invece non è stato così facile farsi una risata a cuor leggero. Nella settimana di apertura in patria, il film è stato ovviamente un successo al botteghino, ma la reazione del pubblico non è stata unanime. Park è stato criticato da molti per il tono macchiettistico della pellicola, cosa che, vista la tematica (molto sentita), è stata giudicata inappropriata. Come cambiano i punti di vista eh?
Se devo essere sincero, anche io mi aspettavo un mood diverso in questo film, ma credo che si sia voluto evitare un effetto alla Joker, il che fa guadagnare punti al regista coreano.
Calcare il pedale del dramma sarebbe stata una scelta sbagliata, primo perché il rischio di far passare per martire un assassino (vero Todd?) sarebbe stato altissimo, secondo perché un tono più serio avrebbe fatto cadere completamente un presupposto intrigante ma precario.
Parliamoci chiaramente, il soggetto del film è pura provocazione, una scusa per introdurre un discorso più ampio.
Questa cosa la sapeva Westlake e l’aveva capita Costa-Gavras. Il suo The Ax aveva l’ironia come collante di una sceneggiatura tirata per i capelli. Non è un caso che tra i produttori di No Other Choice ci siano moglie e figlio del regista francese, questo film deve molto alla prima trasposizione e la dedica finale dice tanto.
Riguardo a questo, fa sempre piacere vedere un po’ di umiltà in una categoria (quella dei registi) che solitamente fa di tutto per vedersi riconoscere ogni merito. Tanta stima per te Park.
Rispetto al film del 2005, questo remake evidenzia il cambio di ambientazione e quindi di cultura, soprattutto quella legata al mondo del lavoro.
Molto carina la scena del gruppo di supporto per chi è disoccupato, che sottolinea l’angoscia del “capofamiglia” non più in grado di svolgere il suo compito, in una società ancora spiccatamente di stampo patriarcale, soprattutto per la generazione del protagonista. Riguardo a questo aspetto è emblematico il racconto di Man-soo fatto a suo figlio sulla morte del nonno, suicidatosi dopo che ha dovuto abbattere tutti i maiali della sua fattoria a causa di una malattia che li aveva colpiti, restando così senza lavoro. Insomma, non è difficile capire da dove arriva il trauma sociale legato al licenziamento.
Come già aveva fatto Gavras nel suo film, è la controparte femminile ad essere mostrata come più disposta ad accettare la condizione di precarietà, facendo intuire che questi (presunti) obblighi morali sono degli strascichi di un’etica del lavoro e della famiglia obsoleta e che devono essere superati.
Park non manca di inserire i suoi cavalli di battaglia. La componente sessuale è fortissima nel rapporto tra marito e moglie, come lo sono le scene dell’occultamento dei cadaveri che permettono al film di spingersi un po’ oltre sul piano visivo, in pieno stile Chan-wookiano.
A proposito di immagini, si nota chiaramente la svolta pop nell’estetica rispetto ai film precedenti, perfettamente in tema con il mood della pellicola.
Non voglio neanche parlare del montaggio, delle inquadrature, dei movimenti di macchina, ecc. Fiato sprecato. It’s Park Chan-wook, bitch.
Sempre di impatto la colonna sonora barocca di Cho Young-wuk, collaboratore storico del regista, grazie al quale la componente musicale ha un ruolo fondamentale all'interno del film e che contribuisce all'atmosfera generale di inquietudine durante tutta la durata.
Invece, a proposito di stoccate dell’ultimo minuto, la sequenza finale è il tocco di classe.
Il nostro “eroe”, uscito vincitore dalla sua personale guerra tra poveri, vaga felice all’interno della fabbrica in cui è stato appena assunto. La fabbrica è interamente domotizzata, per cui lui è l’unico dipendente umano, quasi superfluo. Cammina nei corridoi cercando di schivare i carrelli automatizzati che volendo potrebbero investirlo. Ho detto volendo? Sono macchine, non possono “volere”. Per ora.
Cambio scena, vediamo le abbattitrici nei boschi tagliare in pochi secondi decine di alberi, uno dopo l’altro, con una velocità e una facilità impressionante. Pochi minuti per fare un lavoro che una persona impiegherebbe delle ore a portare a termine.
Stiamo diventando obsoleti, non inutili, o perlomeno, non ancora.
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