Regia di Edgar Wright vedi scheda film
Sotto lo pseudonimo Richard Bachman, nel 1982, Stephen King dava alle stampe il secondo dei suoi due romanzi distopici (l'altro è The Long Walk, 1979), immaginando un'America del futuro totalmente in balia di un sistema televisivo distorsivo incentrato su giochi crudeli che ingannano i disperati di turno promettendo soldi facili e, al tempo stesso, distraggono e intrattengono un pubblico di frustrati che gode nel vedere morire chi tenta di passare dal ceto meno abbiente a quello più facoltoso. Non c'è dunque spazio per gli eroi o, almeno, così sembrerebbe. Del resto, il successo del prossimo provoca sovente fastidio a chi sguazza nella melma e nella mediocrità, dunque perché non sfruttare questo vizio capitale per generare una follia colletiva in una sorta di caccia alla preda. King ambienta la storia proprio nel 2025, anno in cui il talentuoso regista inglese Edgar Wright decide, in simbiosi con lo stesso King (in veste di produttore esecutivo), di trasporre su pellicola il romanzo a suo tempo dato alle stampe sotto pseudonimo di copertura. Edgar Wright è un nome di culto, salito alla ribalta sul finire degli anni novanta col western dal titolo “leoniano” A Fistful of Finger (1994) e soprattutto con la cosiddetta “Trilogia del Cornetto” lanciata dal citazionista romerianoShaun of the Dead (“L'Alba dei Morti Dementi”, 2004) divenuto fin dall'uscita un cult sponsorizzato nientemeno che da Quentin Tarantino. Un regista dunque capace di calamitare su di sé le attenzioni del pubblico di genere, interessato alle contaminazioni e connaturato da un'ironia sconfinante nel comico/grottesco, fatta di un mix tra comicità, satira, azione e horror grandguignolesco che ha in Hot Fuzz (2007) il suo fiore all'occhiello. Qua appare un Wright più maturo, meno giocoso e al tempo stesso più cattivo e incisivo. Il citazionismo è evoluto in una progressione intellettuale che porta Wright a seguire le orme, non più da un mero aspetto visivo ma anche filosofico, dei vari John Carpenter(Ben Richards è un outsider alla Plissken),George A. Romero (il sistema corrotto che sacrifica gli operai per il proprio benessere) e David Cronenberg (il potere della televisione). Il suo The Running Man, a differenza del valido ma “carnevalesco” L'Implacabile diretto nel 1987 da Paul Michael Glaser e fortemente derivativo, più che dell'opera di Stephen King (che fece togliere il proprio nome da credit), di I Guerrieri dell'Anno 2072 (1984) di Lucio Fulci e, in parte, di Endgame – Bronx Lotta Finale (1983) di Aristide Massaccesi, si allinea al testo originale, introducendo il protagonista Ben Richards (una sorta di Jena Plissken) nella città di New York e non più in un'arena artificiale ricostruita nel perimetro dell'area televisiva. Ne viene fuori una struttura simile al point to point che ricorda il canovaccio di film quali Falling Down ("Un Giorno di Ordinaria Follia", 1993) con Richards che incontra, spostandosi da una parte all'altra della città, personaggi fuori di testa che lo aiutano in virtù di proprie convinizoni oppure tentano di ucciderlo per ragioni prettamente economiche o per avere un passaggio televisivo. Si torna dunque sulle coordinate di King e si carica la visione di un sottotesto anarchico/rivoluzionario (si vedano i teli di sfondo che vengono proposti a Richards per registrare i suoi messaggi) che conduce il film nel solco di prodotti quali Escape from New York (“1997 Fuga da New York”, 1981) e Videodrome (1983), in un clima, sia per il montaggio che per i dialoghi, che rimanda ai perduti anni '80, con i suoi antieroi destinati a fallire (qua, purtroppo, si rabbercia il finale) eppure capaci di lasciare un'impronta più profonda rspetto a gli eroi vincenti. Un'impostazione melodrammatica, che mira a riaccendere la capacità di critica e l'intelligenza dello spettatore medio, ormai sempre più assuefatto dalle comodità proposte dal sistema.
The Running Man, che pure omaggia a più riprese l'omonimo film interpretato da Arnold Schwarzenegger (vediamo la sua faccia sui nuovi dollari o sequenze come il finale col presentatore che abbandona il palco lasciando campo aperto al titolare della trasmissione), è un film cupo dove l'ironia, sebbene presente (si veda la sequenza nell'abitazione del nerd che ha trasformato in un Vietnam la sua casa), viene surclassata da una tragicità grottesca in cui tutto è modificato e tutto è sacrificabile in virtù delle esigenze televisive, tra sponsor, proclami esasperati e luci colorate. Il testo di King, del resto, era era già fortemente debitore di opere letterarie filo-anarchiche e complottiste quali il romanzo 1984 (1949) di George Orwell e soprattutto il racconto The Most Dangerous Game ("La Preda più Pericolosa", 1924) di Richard Connell - più volte adattato al cinema con film quali Sopravvivere al Gioco (1994) e The Hunt (2020) - e la narrativa dello scrittore Robert Sheckley, in particolare il racconto Seventh Victim (“La Settima Vittima”, 19530), poi trasposto nei cinema dalla pellicola La Decima Vittima (1965) girata a Tirrenia (Italia) dal vincitore del Premio Oscar Elio Petri, fino al successivo romanzo Victim Prime (“Vittime a Premio”, 1987). Uno zoccolo duro di opere che ha generato un vero e proprio sottogenere, quello dei cosiddetti Hunger Games, con film simbolo del calibro di Rollerball (1975) e Battle Royale (2000).
Solo in Civil War (2024) di Alex Garland, tra le recenti produzioni hollywoodiane, si era visto un sottotesto esplosivo e corrosivo come quello proposto da Wright, così da confezionare un film che recepisce davvero la lezione dei grandi maestri degli anni '80, penso anche a The Crazies (“La Città Verrà Distrutta all'Alba”, 1973) di George A. Romero. Una pellicola dunque che sa unire la spettacolarità ai contenuti di critica sociale, riproponendo (c'era anche nel film di Glaser) l'idea di un sistema massmediatico che trucca tutto, effettua montaggi ad arte e manda in onda immagini ed esternazioni modificate dall'intelligenza artificiale. Tutte cose che sono di moda ai giorni nostri, così come sono oggetto di indagini da parte della procura di Milano le battute di caccia all'uomo andate in scena a metà anni novanta in Bosnia da parte dei turisti italiani paganti.
La morte diviene spettacolo da mandare in onda, motivo di un dibattito filtrato da una lente manipolatoria e ipocrita in cui si cerca di ribaltare la verità a beneficio dell'audience. Non sono i fuggitivi i cattivi, bensì i predatori e, ancor di più, lo è lo Stato che agevola la deriva violenta e stimola i reietti a generare caos per ripristinare così un ordine che fagocita sempre più libertà che altrimenti concedibile nel silenzio. Il gioco è un anestetico per coprire politiche che sacrificano la vita dei cittadini a beneficio dei più ricchi.La felicità di pochi è pagata dai più deboli. In città ci si ammala, ma viene accettato dai cittadini come fatto inevitabile. I sindacati vengono sciolti, chi lotta per fare valere i diritti diviene un insubordinato, stigmatizzato e indicato quale corruttore di valori e per questo bannato dal sistema. Ecco che un reietto come Ben Richards diviene il detonatore di un sistema destinato a esplodere.
Un flm da andare a vedere al cinema (purtroppo nello spettacolo pomeridiano di venerdì 14 novembre in sala eravamo solo in due), pressoché perfetto per trequarti (notevole tutta la prima parte, anche per lo sforzo di una scenografia che mischia futurismo e passato, tra droni volanti e vhs e audiocassette). Non eccelso il finale confusionario, che pare essere stato modificato per volere della produzione in vista di un eventuale sequel. Brutto e inutile lo spiegone in cui si cerca di convincere sulla verosimiglianza di quanto si andrà di li a poco a vedere. Nel cast artistico brillano i gigioni Josh Brolin e Colman Domingo. Convincono anche i cammei di Emilia Jones e Michael Cera. A Glen Powell va il ruolo di Richards, personaggio che riesce a interpretare in modo forse non memorabile, ma comunque efficace. Richards diventa, suo malgrado, un eroe del popolo (chiari omaggi finali anche a The Long Walk, sia per i militari che per il pubblico ammassato a bordo strada), action man a cui poco interessano gli aspetti sociali che pure tenta di denunciare. Richards cerca soprattutto di racimolare i soldi per la propria famiglia e di sopravvivere per i trenta giorni del gioco. La fotografia eccellente del coreano Chung Chung-Hoon (direttore della fotografia di fiducia di Park Chan-Wook) costituisce un elemento aggiuntivo. Non credo di azzardare nel definirlo uno i dieci migliori adattamenti di sempre dei romanzi di Stephen King nonché uno dei pochi action di denuncia del nuovo secolo. Superiore al precedente Running Man - L'Implacabile di Arnold Schwarzenegger. Va visto al cinema!
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