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Il cartaio

Regia di Dario Argento vedi scheda film

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La recensione su Il cartaio

di Rosebud77
4 stelle

La trilogia con la figlia Asia è da dimenticare. Nonhosonno è stato un pallido tentativo di recupero dello smalto di un tempo. Al quindicesimo film, Dario Argento passa al cyber-giallo. E, pur nel secolo della virtualità, inciampa ancora, stavolta senza appelli. Il Maestro del terrore che fu è ormai un mestierante incapace di tenere su uno scontrino una sceneggiatura che sia una. Non riesce più a manovrare la cinepresa, recluta attori che sembrano in preda a droghe (tra cui l’altra figlia Fiore, apparsa nel folgorante incipit di Phenomena facendo una brutta fine mentre qui poco coerentemente si salva) e col solito Franco Ferrini scrive la sua pagina più scialba, a cominciare dalla storia che vede un pazzoide in quel di Roma giocare al gatto e al topo con la Polizia sfidandola apertamente a video-poker on-line. Se perde, lascia andare la ragazza appositamente catturata e visibile sotto torture in web-cam. Se vince, la uccide. Tutto qui.
Stefania Rocca, sprecata, è la poliziotta impavida con padre suicida non ben identificato incaricata del caso, e sembra il clone della Harper di Suspiria. Ad affiancarla, un altro non ben identificato agente inglese (Liam Cunningham) con cui finisce a letto per due secondi prima di morire infilzato nei giardini del Gianicolo (di questi tempi…). Poi ci sono Muccino junior che disbrigatosi dalle maglie fraterne finisce arpionato dopo un inseguimento tra i vicoli del centro storico e le sponde del Tevere (la sequenza meglio costruita), Claudio Santamaria che fa l’ambiguo poliziotto buono (i più furbi, se mai occorresse esserlo, capiscano), Adalberto Maria Merli residuato dal teatro che pare chiedersi cosa ci faccia sul set. I dialoghi e le musiche dell’ex-Goblin Claudio Simonetti gridano vendetta al cielo, la superficialità regna sovrana e posticcia come i cadaveri putrefatti del (solito anche lui) Sergio Stivaletti, girare in inglese, con ovvio auto-doppiaggio in post-produzione, rende il tutto più stridulo e il finale, che in passato costituiva il pezzo forte del regista di Profondo Rosso, è catatonico se non ridicolo. Ulteriore demerito, certi rigurgiti sadici, necrofili e misogini, suoi da sempre, in chiave preoccupantemente seriosa e il fatto che ad ogni possibile sbocco o approfondimento narrativo Argento non sceglie neppure ma procede inerte e sbadato, assuefatto dalla fotografia vedo-non-vedo di Benoit Debie (Irréversible) e dai suoi stessi fantasmi, che ormai non fanno più paura a nessuno.
Vogliamo bene ad Argento, ma Il cartaio è un’accozzaglia di già visto in parecchi suoi film precedenti (Opera in primis) ed è la conferma del declino di un uomo che, dati alla mano, ha toppato un terzo netto della filmografia continuando a giocare le sue carte come fosse il Re di Denari ma assomigliando sempre più al Jolly di se stesso.
Francesco de Belvis

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