Regia di Chuck Parello vedi scheda film
Fedele ai fatti, ma troppo piatto per lasciare davvero il segno.

La storia vera di Ed Gein è una ferita aperta nella cronaca nera americana, ma anche una miniera per il cinema dell’orrore. Da lui sono nati mostri immortali come Norman Bates, Leatherface e Buffalo Bill. Dopo il disturbante Deranged - Il folle del 1974, che resta il film più incisivo sul “macellaio di Plainfield”, nel 2000 il regista Chuck Parello prova a raccontare di nuovo la realtà, scegliendo un tono più sobrio e realistico. Il risultato, però, è un film spento, quasi televisivo, che ricostruisce i fatti con onestà ma senza forza.
Siamo nel Wisconsin degli anni ’50. Dopo la morte del padre, Ed Gein (Steve Railsback) vive nella fattoria di famiglia insieme alla madre Augusta (Carrie Snodgress) e al fratello Henry. Augusta è una donna fanatica e ossessiva, che gli instilla il terrore del peccato e delle donne. Henry, più lucido e critico verso la madre, rappresenta l’unico legame con la realtà, ma muore in circostanze mai del tutto chiarite. Rimasto solo con Augusta, Ed sviluppa una dipendenza totale da lei. Quando anche la madre scompare, il fragile equilibrio di Ed crolla del tutto, e la sua solitudine assume forme sempre più inquietanti. Parello segue questa lenta discesa nella follia con tono documentaristico, senza mai concedere spazio al sensazionalismo.

Parello dirige come se stesse filmando una cronaca per la TV americana di fine anni ’90. L’immagine è piatta, la fotografia slavata, i movimenti di macchina limitati. Nessuna tensione, nessun vero scavo psicologico: solo una registrazione dei fatti. L’intento realistico è chiaro — riportare Gein alla sua dimensione umana, lontana dal mito dell’assassino da film — ma la regia manca di mordente e atmosfera. Non c’è la follia visiva di Deranged – Il folle (1974), né la claustrofobia psicologica che Hitchcock seppe trasformare in leggenda con Psycho (1960).
La sceneggiatura, firmata da Stephen Johnston, già collaboratore di Chuck Parello per il discusso Henry: Portrait of a Serial Killer, Part II (1996), ricostruisce i fatti reali con estrema fedeltà: l’infanzia repressa, la dipendenza dalla madre, le tappe di una follia maturata nel silenzio. Tutto combacia con quanto emerso da articoli e documentari. Ma la fedeltà non basta. Johnston adotta un tono cronachistico, asciutto, quasi privo di tensione narrativa. Il film non scava davvero nella mente di Gein, si limita a mostrarne la routine malata, con dialoghi poveri e ritmo piatto. L’orrore resta tutto “fuori campo”: non si vede una goccia di sangue, e anche le scene più forti vengono solo suggerite. Una scelta che poteva funzionare con una regia più ispirata, ma qui lascia tutto in superficie.

Steve Railsback offre un’interpretazione onesta, trattenuta, coerente con il tono realistico del film. Riesce a dare a Gein una fragile umanità, ma resta imbrigliato in una sceneggiatura che non gli permette di esplodere. Carrie Snodgress, nei panni della madre, è la presenza più viva: fanatica, ossessiva, dominatrice anche dopo la morte. Il resto del cast è di livello televisivo, privo di spessore o intensità. Nessuno riesce a imprimere un segno.

Ed Gein – Il macellaio di Plainfield (2000) è il secondo film interamente dedicato al vero assassino, dopo Deranged – Il folle (1974), che rimane la trasposizione più disturbante e visionaria della sua storia. A differenza di quello, Parello punta a una ricostruzione quasi giornalistica, eliminando ogni eccesso visivo e restando fedele ai dettagli noti dei crimini. La vicenda di Gein aveva già ispirato, in modo più simbolico e potente, Psycho (1960) di Hitchcock, Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper e Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme. Qui, invece, si torna alla cronaca nuda e cruda, ma senza quella forza di visione che aveva reso mitici i film nati dalla stessa leggenda.
Un approccio fedele, sì, ma privo di quella scintilla capace di trasformare i fatti in cinema.
E questa mancanza di visione pesa in tutto il film: Ed Gein è corretto ma debole, più interessato a ricostruire che a raccontare. Realistico, sì, ma povero di cinema. Railsback regge da solo un impianto visivo piatto e un ritmo che non decolla mai. Può incuriosire chi vuole vedere la versione “più fedele” della storia, ma resta un’esperienza fredda, senza tensione né pathos.
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